A un secolo dalla morte (Pittsburgh, 21 aprile 1924), Eleonora Duse, la nostra attrice più grande, resta per tanti aspetti un enigma. Nonostante la grande mole di studi che le sono stati e continuano ad esserle dedicati in tutto il mondo. Si mosse tra vecchio e nuovo teatro, gelosa della propria indipendenza, senza appartenere né all’uno né all’altro. Grazie al successo clamoroso che raggiunse presto (e fu incondizionato, soprattutto all’estero), si aprì nella scena del tempo, a partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento, una personalissima via artistica, impossibile da etichettare, oggi come allora.
La sua indubbia, sconcertante modernità poco aveva a che fare con quella perseguita dalle avanguardie storiche o dal teatro di regia. Ciò che dava agli spettatori non era né divertimento né impegno intellettuale, ma neppure emozioni più o meno consolatorie. Nel suo nuovo, importante contributo sulla “divina” (Eleonora Duse. Storia e immagini di una rivoluzione teatrale, Carocci), la specialista Mirella Schino parla di “scossa”: un turbamento, un’inquietudine, un dolore persino, che potevano lasciarti profondamente toccato, addirittura sconvolto, senza catarsi. Insomma, si trattava per molti di un’esperienza non (soltanto) estetica ma umana, esistenziale.
In occasione del suo ritorno alle scene nel 1921, con La donna del mare di Ibsen, la splendida canizie orgogliosamente esibita, qualcuno (il giovanissimo, geniale Piero Gobetti, in particolare) arriverà a parlare di religiosità, spiritualità, misticismo. Lo studio di Schino rappresenta una guida preziosa a quella “esperienza dell’ignoto” che fu, soprattutto nell’ultimo periodo, il teatro per la Duse e il suo spettatore.
Per tutta la vita la dedizione assoluta a quello che lei chiamava il “Lavoro” aveva spinto Eleonora a lanciarsi spesso in sfide arrischiate e progetti folli: per tutti basterà ricordare il fallimentare tentativo, a cavallo dei due secoli, di dar vita a un teatro di poesia assieme a Gabriele D’Annunzio. Ma tornare in scena a 63 anni, nello stesso ruolo che aveva interpretato nella sua ultima apparizione nel 1909, rappresentò la sua scommessa più difficile. Anziana, affaticata, con i capelli ormai completamente bianchi, rientrò nella parte di una donna giovane e bella: Ellida, la protagonista di uno dei drammi di Ibsen da lei più amati. E il suo primo “marito” di scena fu Memo Benassi, che aveva quasi trent’anni meno di lei. Avrebbe potuto scadere nel patetico se non nel ridicolo, e invece fu un trionfo clamoroso, unanime.
Valga, per tutte, la testimonianza del regista cinematografico di origine armena Rouben Mamulian, che la vede a Londra nel 1923 in Così sia, di Gallarati Scotti, dove nel primo atto interpreta la parte di una contadina ventenne: “Mamoulian vede una donna fragile, e vecchissima […]. Ma subito subentra la ‘bianca magia del genio’, e la Duse, con le sue rughe, capelli bianchi e il resto, non stride più nei panni di una giovane bella e forte. ‘Come avvenne non so: fui completamente inconscio del cambiamento fino a quando non fu compiuto e improvvisamente me ne accorsi. Stavo guardando la giovinezza, la vera primavera della vita’” (p. 286).
Senza trucco o altri espedienti, con una recitazione scarnificata, fatta di un minimo di gesti e movimenti, da cui tuttavia sprigionava una energia insospettabile, Duse era arrivata all’essenza: non una giovinetta ma “la giovinezza”. “Potremmo dire – commenta Schino – che questa essenza non è né la persona Duse, né il personaggio, ma qualcosa che va aldilà di entrambi” (p. 289). In realtà, è qualcosa che va al di là del teatro, o almeno della finzione e della rappresentazione.
E’ per questo che l’”attrice divina”, soprattutto quella degli ultimi anni, è rimasta un riferimento fortissimo lungo tutto il Novecento e le sue tante rivoluzioni sceniche. A suo modo, con altri mezzi e diversi intenti, aveva misteriosamente realizzato quel superamento del teatro mediante il teatro che i registi e gli attori più radicali non smetteranno di perseguire in seguito, anche interrogando ancora e ancora l’enigma Duse.