Era il 7 agosto 2023 quando il Governo Meloni annunciava, per bocca del Vicepresidente Salvini, “un prelievo sugli ‘extraprofitti’ delle banche”. Lo Stato avrebbe incassato “alcuni miliardi” – c’era chi aveva sparato addirittura 10 miliardi per il solo 2023 – che sarebbero andati in “aiuto ai mutui delle prime case e al taglio delle tasse”.
Il giorno successivo il potere mediatico “progressista”, anziché incalzare sulla vaghezza di propositi e sulla scarsa possibilità di intaccare lo strapotere delle banche, si fece megafono degli istituti bancari e denunciò, in particolare, il rischio per la “credibilità” del sistema-paese, testimoniato dal crollo dei titoli bancari alla Borsa di Milano: 9,5 miliardi bruciati in 24 ore (il rimbalzo del giorno successivo non ebbe lo stesso spazio su giornali e tv).
Il 9 agosto fu la stessa Meloni, in una diretta social, a ribattere: criticava l’aumento dei tassi della Bce (“discutibili”), escludeva passi indietro da parte del governo e rivendicava la misura contro i “profitti ingiusti”. Il Governo Meloni, quindi, all’attacco delle banche. O così voleva raccontare. Sottolineando al contempo un apparente paradosso: contro gli “squali della finanza” si scagliava l’ultradestra; la “sinistra”, invece, negli anni al governo, mai aveva provato a redistribuire un po’ degli enormi profitti bancari.
La narrazione serviva a raccontare al Paese un governo impegnato contro i “poteri forti”. E a distrarre l’attenzione dall’eliminazione del reddito di cittadinanza, uno schiaffo in faccia alle classi popolari. Solo che mentre quest’ultima era misura già concreta dalla fine di luglio, e completata dal 1° gennaio 2024, con centinaia di migliaia di famiglie gettate nel panico perché private della fonte di sostentamento, la tassa sugli extraprofitti delle banche rimaneva sul terreno degli annunci. Da lì non si sarebbe mossa. Già a settembre inizia la marcia indietro. “In luogo del versamento”, le banche potranno destinare “a una riserva non distribuibile un importo pari a due volte e mezza l’imposta”, questo l’emendamento del Governo. Fuori dal burocratese, si diceva alle banche che non erano costrette a pagare la tassa (comunque una somma inferiore a quella inizialmente prevista: per Intesa Sanpaolo e Unicredit scendeva rispettivamente da 955 a 769 milioni e da 843 a 766 milioni) e che avrebbero potuto evitare qualsiasi versamento se avessero rafforzato la propria posizione patrimoniale.
La reazione delle banche? “La soluzione trovata viene accolta con soddisfazione da molte componenti del credito italiano”, scriveva il 24 settembre Il Sole 24 Ore. A quel punto, gli osservatori si interrogavano su chi avrebbe comunque deciso di pagare la tassa: “è ragionevole pensare che pagheranno in pochi. Potenzialmente, l’incasso potrebbe essere zero”, così La Stampa, il giornale della famiglia Agnelli-Elkann, il 4 ottobre.
A dicembre la risposta definitiva: l’incasso è stato di zero euro. Tutte le banche hanno deciso di non pagarla. Anche Banca Mediolanum, controllata per il 30% dalla famiglia Berlusconi. Anche Monte dei Paschi di Siena e Mediocredito-Banca, controllate al 64% e al 100% (in questo caso tramite Invitalia) dal Mef. Lo stesso Ministro Giorgetti, insomma, decideva di eludere la tassa. La montagna non aveva partorito nemmeno il proverbiale topolino.
L’argomento è stato affrontato nuovamente da Meloni nella conferenza stampa di fine/inizio anno, il 4 gennaio 2024. A una domanda del manifesto, “il” presidente del Consiglio ha risposto che la tassa sugli extraprofitti è un’operazione “win-win”: le banche, rafforzando la propria posizione patrimoniale, potranno concedere più prestiti, aumenteranno i ricavi e su quelli pagheranno più tasse, che andranno allo Stato. Ecco la strana teoria basata sui desideri di Meloni e non su fatti. Questi, invece, parlano di un 2023 da record per i profitti bancari. La causa di fondo è la politica della Bce, che con dieci rialzi consecutivi dei tassi da luglio 2022 li ha portati da zona negativa al 4%. Una decisione tutt’altro che “tecnica”: l’obiettivo è tenere bassi i salari per scongiurare un’inesistente spirale salari-prezzi e tenere a freno un’inflazione che, invece, è figlia di una spirale profitti-prezzi.
Così, mentre i salari stagnano, i profitti – a partire da quelli delle banche – schizzano (nel 2023 le banche europee hanno chiuso con la cifra monstre di 160 miliardi di utili; le prime quindici, da sole, ne hanno realizzati 65 miliardi). Gli istituti di credito, infatti, hanno giocato sulla differenza tra gli interessi guadagnati per prestiti e mutui concessi e quelli pagati ai clienti su conti e depositi. In Italia chi ha chiesto un mutuo per una casa ha dovuto accettare tassi dal 4,5% a salire. Chi invece ha risparmi depositati presso un qualsiasi istituto bancario, sa bene che l’interesse è sotto l’1% (in media allo 0,92%), lontanissimo quindi dagli interessi richiesti da quelle stesse banche sui prestiti erogati. Il risultato? Performarce addirittura “stellare” secondo Il Sole 24 Ore per le banche italiane in Borsa: +48% (la Borsa di Milano nel complesso ha fatto segnare un +28 punti) contro una media europea del +20% e quella Usa del +10%.
Secondo l’organizzazione sindacale Fabi (Federazione Autonoma Bancari Italiani) in Italia gli utili bancari sono pari a 43,4 miliardi. Più di una manovra di bilancio. In gran parte si tratta di utili che la stessa Meloni ha definito “margini ingiusti”, ancora il 4 gennaio. Un’ingiustizia che non viene e non verrà sanata. Perché le Meloni, gli Abascal, le Le Pen e i Milei non fanno altro che difendere i “poteri forti”. Limitandosi, al massimo, ad abbaiare. Senza mai mordere. Né a monte né a valle.
L’ultradestra non porta, a monte, a modificare le politiche della Bce, che già nella carta fondativa ha la missione di difendere il potere finanziario; né, a valle, ha la volontà e la capacità di introdurre e applicare misure che permettano di redistribuire i profitti di pochi ai tanti che vengono invece spremuti ogni giorno.