di Michele Sanfilippo
Una delle cause principali della crisi delle democrazie rappresentative è, a mio avviso, l’eccessiva permeabilità della politica rispetto alle pressioni economiche esercitate dal potere economico. Già Cicerone, nelle sue Verrine, ci ammoniva sui guasti della corruzione di chi governa ma, da quando è caduto il muro di Berlino, il lobbismo è sempre più in grado di esercitare pressione sulla politica per orientarne le scelte, in tutti gli ambiti possibili e immaginabili. A livello planetario si possono fare esempi come quello dei mondiali di calcio in Qatar, all’Expo 2030 a Riad o le ridicole (non) decisioni prese durante il recente Cop28. A livello domestico, abbiamo visto come sono state condotte le privatizzazioni. Come sanno bene i cittadini italiani, basta osservare lo stato della sanità pubblica o le infrastrutture (autostrade e telefonia) per capire come la politica (indifferentemente, a destra come a sinistra) le abbia svendute al mercato.
Questa commistione tra affari e politica ha consentito la crescita di una zona grigia, sempre più vasta e trasversale tra i partiti, dove la corruzione del politico non viene neppure percepita come tale ma viene, piuttosto, ritenuta fisiologica per il normale svolgimento delle attività. La classe politica delle democrazie di quasi tutto il mondo anziché cercare di ridurre i margini di illegalità, creando anticorpi al suo interno, ha preferito arginare il potere giudiziario. Lo hanno fatto Ungheria, Polonia, Romania, Israele con leggi liberticide che mirano a subordinale il potere giudiziario a quello esecutivo e suscitando proteste più o meno intense.
Noi italiani che, come abbiamo visto, abbiamo un’esperienza millenaria in materia, siamo più raffinati. Non sono state promulgate leggi clamorose per affrontare frontalmente il potere giudiziario. Si è lavorato di fino per renderlo inefficace. La politica ha agito su diversi fronti: il depotenziamento del personale, la depenalizzazione di alcuni reati chiave, la contrazione dei tempi per attivare la prescrizione. Tutte queste misure hanno reso il processo incelebrabile, dando a tutti la sensazione dell’assoluta inefficienza del potere giudiziario e quindi della magistratura.
I dati sono impietosi. Nel 2018, secondo i dati del ministero della Giustizia, in Italia il 62% dei processi penali non arriva in aula, ossia cade in prescrizione durante lo svolgimento delle indagini. Nel ventennale di Mani Pulite (2012), Piercamillo Davigo scrisse un articolo titolato “Mani pulite venti anni dopo: se le condanne per tangenti sono un decimo di 15 anni fa è per lo sfascio della Giustizia voluto da maggioranze trasversali.” E vi si leggevano frasi del tipo: “Così la politica, da destra a sinistra, ha salvato i ladri” e “le leggi più dannose sono state perciò quella approvata dalla maggioranza di centrosinistra sui reati finanziari e quella della maggioranza di centrodestra sul reato di false comunicazioni sociali”. Come dice lo stesso Davigo, la sensazione diffusa è che in Italia convenga delinquere, soprattutto se si può disporre di buoni avvocati.
A me sembra evidente che i problemi della giustizia italiana non abbiano certo a che fare con la separazione delle carriere o con l’eccesso di intercettazioni telefoniche, men che meno con la possibilità da parte della stampa di pubblicare informazioni sulle indagini in corso o l’abolizione dell’abuso d’ufficio. In Italia non c’è un problema di scarso garantismo. Al contrario, tutte le misure promosse dalla politica sono servite solo a garantire impunità a chi la esercita (male). Se non si riuscirà a ridare al potere giudiziario la possibilità di garantire l’esercizio di una giustizia che sia davvero uguale per tutti, non sarà a rischio solo la qualità della politica ma anche e soprattutto la credibilità della democrazia.
Sarebbe ora che la questione morale tornasse al centro dell’agenda politica di qualche partito. Uno qualsiasi.