Il 21 gennaio del 1921 Livorno, governata da una giunta socialista, fu scelta come sede del congresso nazionale del Partito socialista italiano. Inizialmente il congresso doveva tenersi a Firenze ma questa opzione fu rapidamente abbandonata in seguito al dilagare di orrende violenze squadriste e per effetto dell’evidente connivenza della polizia. Quindi, Livorno fu scelta per ragioni di sicurezza, in virtù del posizionamento della giunta comunale e grazie all’orientamento non del tutto fazioso del prefetto.

Occorre dire però che anche nella città labronica si respirava una certa tensione. In effetti il Psi aveva consolidato la propria forza in città vincendo nettamente le elezioni amministrative a fine 1920: l’affluenza alle urne fu maggiore rispetto alle politiche del 1919 e la vittoria schiacciante. Tuttavia il successo elettorale spaccò la città, non tanto per una questione di numeri, quanto per la polarizzazione della società livornese. Benché le costellazione variegata delle sinistre livornesi fosse molto forte e radicata, il fronte dell’opposizione conservatrice fascista o filofascista era qui collocato su posizioni particolarmente reazionarie e iniziava a sentirsi sempre più politicamente legittimato, mentre lo squadrismo continuava a crescere in tante città italiane.

Il 10 novembre 1920, ad appena tre giorni dalla vittoria socialista, lo squadrismo fascista fece il suo aggressivo esordio anche a Livorno, assieme a nazionalisti, monarchici, militari e forze dell’ordine, in occasione del rientro solenne da Roma delle bandiere dei reparti militari di stanza a Livorno. La cronaca riporta una serie di tensioni e tafferugli che furono provocati dalle destre e che attraversarono la città: fascisti, nazionalisti e ufficiali armati partirono dalla ferrovia, minacciando il capotreno per non aver esposto il tricolore; i carabinieri seguirono alcuni manifestanti, sei lavoratori furono bastonati e quattro raggiunti da colpi di moschetto; ci furono scontri e sassaiole ovunque.

In particolare, un gruppo di ufficiali e carabinieri armati giunse a fare irruzione nel palazzo comunale, sostituendo la bandiera rossa con il tricolore ma a quel punto la Camera del lavoro proclamò uno sciopero di 36 ore e, nel pomeriggio, una folla proveniente dai quartieri popolari riconquistò il centro e della bandiera nazionale issata sul municipio rimase soltanto un lembo rosso.

In questo clima si insediò la giunta socialista e, di fatto, il congresso nazionale fu chiamato solo poco tempo dopo. Dunque, la fiducia nei confronti della forza pubblica era a ragion veduta piuttosto bassa e, benché in occasione del congresso fossero state schierate 3.500 tra guardie regie, carabinieri e soldati, si optò per l’autodifesa: si formarono squadre di vigilanza antifascista costituite da militanti anarchici e da guardie rosse. È interessante notare che queste Squadre di azione antifascista aggregarono tutte le diverse afferenze politiche della sinistra livornese eppure, di lì a poco, sarebbe avvenuta la famosa scissione che avrebbe portato alla nascita del Partito Comunista d’Italia.

Anche a Livorno il Psi era molto diviso: quando Giuseppe Emanuele Modigliani, tra i fondatori della sezione livornese del partito socialista nel 1894, deputato dal 1913, nonché uno dei più noti rappresentanti locali della frazione socialista riformista e moderata, inaugurò il congresso al Teatro Goldoni, gli attriti emersero sin da subito. Modigliani aprì il congresso porgendo il suo saluto “a Turati come a Bombacci” (e quindi ai moderati come agli intransigenti scissionisti) e fu travolto immediatamente da grida fragorose (tanto da essere ripetutamente segnalate nel resoconto stenografico). Da un lato c’era chi inneggiava alla Livorno proletaria; dall’altro chi lo additava come traditore della causa e gli intimava di andarsi a nascondere. Lo stesso Modigliani non mancò poco dopo di concludere i suoi saluti con queste parole: “Pensate che da taluno è considerata questa sala come una sala chirurgica, nella quale si deve portare un’amputazione dolorosa! Noi non sappiamo se a questa amputazione si arriverà; ma, in tutte le maniere, se qualcosa devesi amputare, sarebbe ciò che è marcio, ciò che non può servire a nessuno, ciò che si disdegna”. E in effetti l’amputazione ci fu: come noto, furono presentate tre mozioni e quella centrista risultò complessivamente vincente raccogliendo 98.028 voti; i riformisti ne presero 14.695; mentre i comunisti ne raggiunsero 58.783, certamente non pochi, pur rimanendo in minoranza. Una parte di questi ultimi abbandonò le sale del Teatro Goldoni e si recò per le 11 al Teatro San Marco, dove iniziò un’altra, lunga, complessa storia di passione e lotta politica.

Il comunismo livornese però fu sempre molto collaborativo con le altre forze politiche di sinistra e, in particolare, con gli anarchici, con cui condivisero grandissima parte della storia di militanza locale. Infatti, occorre capire che non esiste né una storia lineare e unitaria, né un rapporto rigidamente verticale tra partiti nazionali e locali. Il comunismo livornese, come quello di molte altre realtà, non fu un’esperienza settaria come spesso si crede. Questa convinzione, pur avendo alcune radici e conferme nella difficoltà del momento storico, è stata rafforzata dalla demonizzazione delle forze anticomuniste e dalla necessità di una autolegittimazione istituzionale del partito nuovo di Togliatti, che nel secondo Dopoguerra ebbe bisogno di prendere distacco dal periodo precedente, ma non è aderente alla realtà storica. Sappiamo ad esempio che, a scissione avvenuta, i comunisti decisero di rinnovare il proprio impegno nell’amministrazione comunale. La decisione fu autonoma e in tal caso ebbe il consenso della direzione centrale.

In particolare, questa logica collaborativa fu centrale anche nel definire la conformazione degli Arditi del popolo, movimento spontaneo e popolare che emerse e si diffuse in diversi contesti italiani, per far fronte comune contro le crescenti aggressioni fasciste, che già prima della marcia su Roma nell’ottobre dello stesso anno, avevano coinvolto sedi e militanti sindacali e legati a camere del lavoro e gruppi politici antifascisti. Almeno in linea teorica, la direzione del PCd’I reagì in modo piuttosto guardingo. Amadeo Bordiga, che era il segretario nazionale, puntualizzò subito che l’inquadramento militare doveva rimanere assolutamente a base di partito. A Livorno Ilio Barontini, segretario della sezione, nonostante il rifiuto centrale, promosse l’adesione al movimento e la sezione locale partecipò moltissimo alle iniziative degli Arditi del popolo e riconfermò l’apertura e la radicalità che la contraddistinguevano.

Lo studio della scena livornese aiuta a comprendere che, al di là di un’effettiva rigidità ideologica originaria, la realtà delle dinamiche sociali, politiche e umane era ed è più complessa di ogni sua narrazione. Ciò che traspare da questa esperienza è la presenza nel tessuto popolare della città labronica del cuore pulsante di un nucleo forte, ideale genuino, libertario, ribelle e soprattutto autenticamente antifascista. La priorità fu sempre la lotta antifascista e l’interesse imprescindibile delle battaglie delle classi popolari, ascoltato e tradotto attraverso il radicamento sul territorio e nella società e grazie alla rapidità di coordinamento dell’azione politica comune. Ma da cosa derivava questa particolare conformazione del comunismo livornese? È possibile fare molto ipotesi ma quella più convincente sembrerebbe risalire alle sue origini, che si ritrovano anche in alcune testimonianze fasciste.

“Occorre, per capire meglio, risalire alle origini della popolazione di Livorno, formata in buona parte con elementi raccogliticci, evasi, profughi, levantini, ebrei, in numero questi rilevantissimi. Educazione e religione non hanno mai fatto breccia in questo popolo, tanto che oggi il difetto principale delle masse è la mancanza di ogni puro sentimento di civismo e di attaccamento ai sentimenti del dovere, terreno fertilissimo quindi per le idee sovvertitrici”: con queste parole si espressero i maggiori esponenti del fascismo locale, il maggior generale Giulio Corradi, il colonnello Costantino Leo e l’avvocato Emanuele Tron, durante una delle due inchieste governative che precedettero la conquista fascista della città e che fu inviato all’ispettore Lutrario, dopo aver riscontrato una profonda difficoltà nell’infiltrare i “quartieri popolari abitati da estremisti e simpatizzanti”.

La penetrazione del territorio cittadino risultò tanto ostica da notare che “le guardie regie risentivano subito e troppo l’influenza dell’ambiente nel quale vivevano, per l’ubicazione delle caserme nei centri infetti e per il contatto continuo con gli elementi torbidi a guardia dei quali sono messe”. Per l’ispettorato era dunque fondamentale “procedere a perquisizioni continue, ben preparate e meglio condotte, su interi quartieri della città contemporaneamente, in stabilimenti, sedi di associazioni, circoli politici o sedicenti apolitici”. Un anno dopo, nel giugno del 1923, quando i fascisti riuscirono nella perquisizione simultanea di 240 appartamenti nel centro urbano livornese, Benito Mussolini celebrò addirittura il fatto in Senato. Se c’è un elemento che emerge in modo evidente da questo rapido sguardo su alcuni documenti istituzionali – oltre allo sguardo giudicante e al taglio reazionario dei fascisti – è quello della tumultuosità livornese, del fervore del suo intatto sostrato popolare.

La penetrazione del territorio cittadino risultò tanto ostica da notare che “le guardie regie risentivano subito e troppo l’influenza dell’ambiente nel quale vivevano, per l’ubicazione delle caserme nei centri infetti e per il contatto continuo con gli elementi torbidi a guardia dei quali sono messe”. Per l’ispettorato era dunque fondamentale “procedere a perquisizioni continue, ben preparate e meglio condotte, su interi quartieri della città contemporaneamente, in stabilimenti, sedi di associazioni, circoli politici o sedicenti apolitici”. Un anno dopo, nel giugno del 1923, quando i fascisti riuscirono nella perquisizione simultanea di 240 appartamenti nel centro urbano livornese, Benito Mussolini celebrò addirittura il fatto in Senato.

Se c’è un elemento che emerge in modo evidente da questo rapido sguardo su alcuni documenti istituzionali – oltre allo sguardo giudicante e al taglio reazionario dei fascisti – è quello della tumultuosità livornese, del fervore del suo intatto sostrato popolare, che aveva una composizione eterogenea, femminilizzata, razzializzata della classe lavoratrice e subalterna livornese, che ha portato con sé sia risorse che problematiche. Le problematiche erano principalmente legate ai frequenti scontri tra i cittadini e le cittadine di Livorno, divisi da appartenenze differenti e concezioni spesso inconciliabili sulla vita sociale, oltre che da una frequente estraneità alla logica dell’organizzazione politica. D’altro canto, le risorse sono state rappresentate dall’incontro di identità così diverse, che hanno definito una comunità storicamente refrattaria a sottomettersi a una cultura unica o all’autorità di governo. A partire da qui si è sviluppata una storia politica caratterizzata da un costante dialogo tra le trasformazioni delle strutture e dei gruppi politici e lo spontaneismo popolare che è stato contributo fondamentale per spostare in avanti l’asticella del conflitto.

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