Gli insulti razzisti. La partita sospesa. Il giocatore che esce dal campo. I compagni che lo supportano. Gli avversari che si uniscono in un coro di solidarietà. Le istituzioni che tuonano. I media che si indignano. Il mondo del calcio si stringe intorno a Mike Maignan che ha avuto il coraggio di dire no al razzismo al punto di lasciare il terreno di gioco. Un gesto talmente rivoluzionario che lo avevamo già visto 20 anni fa. E da allora non è cambiato nulla.
Era il 27 novembre 2005, Messina-Inter: Marco André Zoro, vittima di fischi e insulti razzisti da parte della tifoseria nerazzurra, minaccia di abbandonare il campo. È la prima volta che succede qualcosa del genere, che un calciatore si ribella alla violenza fino ad allora sempre tollerata delle curve. Anche quello sembrava un fatto storico, un momento di svolta. Eppure siamo sempre qua. Ci ricaschiamo ogni stagione, più o meno una volta l’anno c’è un episodio più o meno grave di razzismo da commentare. A cui poi sia aggiungono i saluti romani, i cori antisemiti o territoriali, tutte variazioni sullo stesso tema. È tutto molto squallido, inaccettabile, semplicemente anacronistico.
La lotta alla discriminazione, in ogni sua forma, negli stadi è tremendamente complicata. Una ricetta per risolvere il problema non esiste. Le regole sono state modificate nel 2019 e applicate correttamente durante Udinese-Milan: l’art. 62 delle Noif prevede interruzione temporanea della gara per l’annuncio del pubblico a gioco fermo, poi la possibilità della sospensione per un massimo di 45 minuti. Evidentemente ancora non basta. C’è chi invoca sanzioni esemplari, come la chiusura dello stadio per svariate giornate, ma in un settore a fronte di 100 violenti ci sono 10mila tifosi perbene che hanno pagato il biglietto e sarebbero colpite ingiustamente. C’è chi ha parlato addirittura di partita persa a tavolino, ipotesi caldeggiata dalla stessa Fifa: sarebbe di sicuro un segnale chiaro, ma anche un precedente molto pericoloso (i club tornerebbero a essere ostaggi delle curve e le competizioni rischierebbero di essere falsate).
La verità è che l’unica soluzione corretta è quella verso cui già si sta andando da un po’ di tempo: cercare di individuare e perseguire i veri responsabili. Il problema è che le curve ancora oggi sono troppo spesso dei porti franchi dove tutto è lecito o almeno si crede che sia tale: bisognerebbe averne un controllo sempre più capillare ma anche qui, più facile a dirsi che a farsi (chi se ne occupa: i club, con quale autorità e mezzi? Lo Stato, con tutti i problemi a cui ha già da pensare?). Il Daspo emanato l’anno scorso nei confronti di 171 tifosi bianconeri per gli ululati contro Lukaku durante Juventus-Inter di Coppa Italia è stato davvero un intervento rivoluzionario, perché per la prima volta si è avuta la sensazione di essere in grado di punire chi è davvero l’autore dei cori razzisti. Senza retorica, senza provvedimenti simbolici che però lasciano il tempo che trovano. A dimostrazione che forse la soluzione è ancora una volta extra-calcistica, e che la giustizia sportiva rimarrà sempre un po’ inadeguata. Adesso si attende che anche ad Udine avvenga lo stesso. Nel frattempo, il calcio italiano ha rimediato l’ennesima figuraccia.