Per settimane è stato protagonista incontrastato di giornali, social e salotti televisivi, dopo che la sua rapida e ampia diffusione nel Mediterraneo aveva messo a dura prova risorse e ambiente per i molluschi locali e, di conseguenza, anche per la catena alimentare (e commerciale) marina. Costituendo così sia un problema ambientale, sia un problema economico. Ma il Callinectes sapidus, più comunemente noto come granchio blu – quest’anno ufficialmente introdotto, oltre che nei nostri mari, anche nel dizionario della Treccani – continua a far parlare di sé. Le ragioni? Un decreto legge, a firma Lollobrigida, che ne decreta la commerciabilità.
Il famigerato granchio, infatti – originario della costa orientale degli Stati Uniti e giunto nei nostri mari probabilmente finendo nelle acque di zavorra delle navi mercantili già alla metà del secolo scorso – è stato inserito tra le denominazioni commerciali delle specie ittiche con un decreto firmato dal ministro dell’Agricoltura. Un provvedimento che secondo l’Alleanza delle Cooperative della pesca è “un ulteriore tentativo di aiutare gli operatori a superare le enormi difficoltà create dall’invasione del killer”.
“Già da tempo registriamo vari tentativi di lenire gli effetti di questa emergenza con iniziative che cercano di promuoverne il consumo di questo crostaceo – fa sapere l’Alleanza – e nonostante questo permangono tutte le oggettive difficoltà più volte denunciate da produttori e organizzazioni economiche”. Secondo l’Alleanza “con questo provvedimento viene sanato un aspetto legato alla commercializzazione peraltro in corso già da alcuni mesi attraverso denominazioni talvolta similari. Per il consumatore sarà quindi meno complicato individuare sui banchi delle pescherie e della grande distribuzione questo crostaceo; restano le perplessità rispetto all’ipotesi che si possa costruire una vera e propria filiera commerciale capace di offrire un’alternativa economica alle migliaia di pescatori colpiti da questa emergenza ambientale”.
Con il decreto, secondo l’Alleanza, l’Italia si allinea agli altri Stati Ue che da tempo commercializzano regolarmente il callinectes sapidus con la denominazione ‘granchio blu’ e colma un vuoto legislativo. “Si tratta di un altro tassello lungo un difficile percorso nel tentativo di lenire nei limiti del possibile gli effetti di questa vera e propria calamità”, ha aggiunto l’alleanza. Che si aggiunge al decreto del 23 ottobre del 2023 per l’assegnazione di 2,9 milioni di euro alle imprese ittiche che nei mesi precedenti avevano pescato e smaltito tonnellate di granchio blu. Una sorta di rimborso spese per l’acquisto delle attrezzature.
Il granchio blu, che oltre a minacciare gli altri molluschi è stato scoperto essere anche cannibale, rappresenta in effetti una vera e propria emergenza per alcune regioni italiane, con il Veneto che ha addirittura proclamato lo stato di calamità. Un’emergenza che, stando agli inviti di diverse autorità, si potrebbe in parte contenere proprio promuovendo il consumo a tavola di questi esemplari. Consumo che per ora, però, incontra ancora la diffidenza di molti italiani, anche se la pubblicità è stata capace di stimolare comunque l’aumento di domanda e offerta: rispetto al 2022, infatti, si è già verificato un aumento delle commercializzazioni del 75%.
Intanto la prolificazione della specie – in particolare nelle zone lagunari della penisola – non sembra rallentare. Neanche con il freddo. Come spiegato a Il Post da Emanuele Rossetti, biologo del consorzio pescatori del Polesine, “in inverno è meno vorace rispetto all’estate, però continua a diffondersi“. “L’unico modo per eliminarlo – ha spiegato il biologo – è pescarne il più possibile, anche quelli di taglia piccola, per far abbassare la curva di crescita della popolazione”.
Il temuto granchio è al centro anche di studi e ricerche accademiche. In particolare all’Università Ca’ Foscari di Venezia, dove un gruppo di ricercatori composto da Claudia Crestini, professoressa di Chimica generale e inorganica, Matteo Gigli, professore di Fondamenti chimici delle tecnologie e dal dottorando Daniele Massari del Dipartimento di Scienze Molecolari e Nanosistemi, ha brevettato, in collaborazione con la professoressa Livia Visai e la dottoressa Nora Bloise dell’Università di Pavia, la possibilità di trasformare la chitina – cioè un biopolimero contenuto nell’esoscheletro dei crostacei, granchio blu compreso – in “nanomateriali intelligenti” con proprietà funzionali utili in diversi campi di applicazione che spaziano dalla biomedicina al packaging biosostenibile, fino al restauro e la conservazione di materiale scrittorio. Trasformando così un’enorme sfida all’industria ittica e all’equilibrio ambientale del mediterraneo in un’opportunità scientifica, tecnologica ed economica.
Tentare di debellare con ogni mezzo questo “cinghiale di mare”, come è stato significativamente soprannominato dai pescatori, è diventato insomma un obiettivo capace di far militare sullo stesso fronte accademia e politica. E se per i primi è l’esoscheletro a costituire una fonte di interesse, per i secondi è ciò che l’esoscheletro racchiude. Che può essere cucinato, come alcuni chef avevano già sostenuto apertamente. L’ultimo decreto si muove proprio in questa direzione, e condanna l’invasore californiano a primeggiare nei banchi del pesce dei mercati ittici italiani.