Continui record per il numero di occupati a fronte di un’economia poco più che stagnante. È il grande rebus dei dati sul 2023. Un anno che ha visto il prodotto interno lordo tornare al trend di crescita da “zero virgola a cui l’Italia si era abituata prima del Covid e la produzione industriale perdere terreno. Ma in parallelo ha registrato andamenti lusinghieri per il mercato del lavoro. Una contraddizione su cui analisti ed economisti hanno indagato, mettendo in fila alcuni caveat sull’interpretazione delle statistiche ufficiali e possibili cause di un andamento controintuitivo. Di sicuro, come vedremo, c’è solo che le dinamiche in atto non dipendono da misure adottate dal governo in carica.

I dati su Italia e Ue – Le persone con un posto sono salite di 520mila unità in un anno (+2,2%), toccando i 23,7 milioni tra cui 15,7 milioni di dipendenti a tempo indeterminato: mai così tanti. Il tasso di occupazione è arrivato al 61,8%. Il trend di crescita è condiviso con il resto dell’Unione europea, dove il tasso è arrivato al 75,3%, come sempre ben sopra quello italiano, nonostante un pil quasi piatto per l’insieme dei 27 Paesi membri.

Le ipotesi: lavoro più conveniente rispetto agli altri fattori di produzione – La Banca d’Italia nell’ultimo Bollettino economico del 2023 ha spiegato che il forte aumento dei prezzi dei beni intermedi (compresa l’energia) rispetto al costo del lavoro ha indotto le imprese a utilizzare relativamente più manodopera. Il che contribuisce a spiegare sia l’aumento degli occupati sia il contemporaneo calo della produttività del lavoro stesso, che tra la fine del 2021 e la prima metà dello scorso anno ha subito la riduzione maggiore dalla crisi finanziaria del 2008-2009.

Scarsità di offerta – Le assunzioni potrebbero essere legate, secondo gli analisti, anche alla crescente scarsità di offerta di lavoro: da un lato mancano alcune competenze cercate dalle aziende, dall’altro l’evoluzione demografica fa sì che le forze di lavoro nelle fasce più giovani si assottiglino sempre di più. Come ipotizzato da Francesco Seghezzi, presidente della fondazione Adapt, le aziende starebbero quindi scegliendo di trattenere, stabilizzandoli, i lavoratori a termine che hanno già testato e in alcuni casi formato, per non trovarsi nella situazione di dover affrontare una nuova procedura di selezione con tempi lunghi.

Sempre più over 50 occupati – Guardando le serie storiche dei dati sugli occupati salta all’occhio il “degiovanimento” (copyright Alessandro Rosina) della platea degli occupati: gli over 50 sono oggi oltre 9,5 milioni, il 40% delle persone che lavorano, mentre i 35-49enni sono 8,7 milioni (37%) e i 25-34enni si fermano a 4,2 milioni (18%). Dieci anni fa gli ultracinquantenni “pesavano” solo per il 30% sul totale degli occupati, i 35-49enni per il 45%. L’evoluzione va di pari passo con il progressivo aumento dell’età media della popolazione. Ma è legata anche agli effetti della riforma Fornero, che aumenta la presenza in uffici e fabbriche di persone che nel primo decennio del 2000 avrebbero invece potuto andare in pensione. “La crescita sbandierata”, sostiene dunque la Cgil, “non è da attribuire a nuovi ingressi ma alla mancata uscita dal mercato del lavoro o da uscite ritardate”.

Posti stabili ma part time? – I nuovi occupati registrati dall’Istat negli ultimi 12 mesi sono tutti lavoratori a tempo indeterminato (più una piccola quota di autonomi), mentre quelli a termine sono diminuiti. Ma l’istituto di statistica non rileva per quante ore sono impiegati gli individui che risultano occupati. Non aiuta il fatto che con il governo Meloni sia sparita la nota congiunta di Bankitalia, ministero del Lavoro e Anpal, in cui c’erano informazioni utili per comprendere meglio le dinamiche del mercato. Gli ultimi bollettini di via Nazionale mostrano comunque un andamento ondivago del numero di ore lavorate per dipendente: se nel secondo trimestre 2023 è calato per la prima volta dal 2021, nel terzo trimestre è tornato a salire. Sembra quindi perdere quota – al momento – la tesi per cui i nuovi posti stabili potrebbero essere stati in gran parte part time, spesso di bassa qualità e con stipendi ridotti.

Il pil sottostimato – L’economista dell’Ocse Andrea Garnero ha ipotizzato invece che l’apparente contraddizione vada spiegata con una sottostima del pil. Da dopo il Covid, e in misura crescente nel 2023, il prodotto interno lordo risulta sempre notevolmente inferiore al reddito nazionale lordo, un altro indicatore calcolato sommando tutti i redditi percepiti da residenti e imprese del Paese. È possibile quindi che in questa fase il rnl sia più accurato nel descrivere l’andamento della ricchezza nazionale e che il pil 2023 sia destinato ad essere rivisto al rialzo.

Lo stop al rdc non c’entra – Non ha al momento alcun supporto la tesi, espressa anche da alcuni esponenti del governo, stando alla quale la crescita dell’occupazione sarebbe influenzata dall’abolizione del reddito di cittadinanza a partire dalla scorsa estate. In realtà molti percettori di rdc lavoravano già prima (guadagnando molto poco). Molti altri hanno perso il diritto al beneficio ben prima che fosse tolto agli “occupabili”, semplicemente perché dopo la pandemia, quando le opportunità hanno ricominciato a crescere, hanno trovato un posto. Del resto i dati finora disponibili, che si fermano al terzo trimestre 2023, evidenziano un aumento di occupati solo tra chi ha diploma o laurea, non per le fasce con livello di istruzione molto basso in cui, secondo l’Anpal, si concentravano i beneficiari del sussidio. L’impatto dello stop al rdc si tradurrà più facilmente in un aumento degli inattivi, per ora molto contenuto.

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