di Leonardo Botta

Da modesto ingegnere incapace di progettare anche l’ultimo dei bulloni di un ponte, mi sono fatto qualche idea sull’ambizioso progetto di quello sullo Stretto. Con una premessa: se mai un giorno esso vedrà la luce, io mi ci accamperò per essere il primo ad avere il piacere di attraversarlo. Il mio è un ragionamento che afferisce più alla sfera emozionale che tecnica: mi piacciono, anche per deformazione professionale, le opere ingegneristiche più ardite. Rimasi estasiato davanti ai padiglioni della Ciudad de las Artes y Ciencias, l’avveniristico quartiere valenciano di Calatrava. Analoga sensazione ebbi alla vista dello Shard, il grattacielo di vetro che il nostro Renzo Piano ha magistralmente incasellato nello skyline di Londra; o della catalana Sagrada Familia, visionaria opera di Gaudì; o dell’Atomium di Bruxelles.

Tornando ai ponti, il più imponente che io abbia visitato è quello sul Bosforo che unisce l’Europa e l’Asia nei pressi di Istanbul: una struttura dalla lunghezza di un chilometro, che a me già sembrò titanica; figuratevi come immagino mi apparirebbe il viadotto tra Villa San Giovanni e Messina che, di chilometri tra i due opposti piloni, ne macinerebbe quasi tre e mezzo! Ma ai dati tecnici tornerò tra un po’; ora voglio avanzare qualche “obiezione alle obiezioni” dei molti detrattori dell’opera. Innanzitutto consentitemi di contrastare una delle più ricorrenti, secondo me stucchevoli critiche: “Il ponte rischia di unire non due coste, bensì due cosche”. Questa mi sembra una colossale sciocchezza: secondo tale metro di ragionamento, nelle già bistrattate terre siculo-calabresi non si dovrebbero più realizzare opere pubbliche perché sarebbe sempre configurabile il rischio di foraggiare la malavita organizzata!

Trovo più fondata l’altra contestazione, secondo la quale la Sicilia ha una viabilità interna, su gomma o rotaia, così disastrata che non si può pensare di partire da un’opera che consumerà da sola una quindicina di miliardi, salvo imprevisti, varianti o aggiornamento prezzi. Ma potrebbe anche darsi il caso che il ponte possa fare da volano a una stagione di investimenti infrastrutturali in quelle aree, che provino a riallinearne il sistema trasportistico ai livelli di altre regioni. Non mi esprimo (non sono un etologo) sugli allarmi delle associazioni ambientaliste riguardo alle eventuali conseguenze sulle rotte migratorie delle specie animali nel canale.

Torniamo agli aspetti tecnici (qui emergono tutte le mie pur incompetenti perplessità). Come dicevo il ponte, per il quale si è scelta la soluzione a unica campata sospesa (rispetto alle alternative del tunnel sommerso o di una struttura a più campate), prevede un impalcato di “luce” pari a 3,3 km sorretto da due colossali piloni alti 400 metri (più o meno quanto le sfortunate torri gemelle) per mezzo di cavi del diametro di oltre un metro. Bene, attualmente il ponte di campata più lunga (due chilometri) al mondo è quello dei Dardanelli (Turchia): la tecnologia che evolve senza sosta, ma per passi graduali, dovrebbe conoscere, con il Ponte sullo Stretto, un impressionante balzo in avanti nel guinnes dei primati, fino quasi a raddoppiare la lunghezza rispetto all’attuale record. D’altro canto fu lo stesso Salvini, oggi ministro delle Infrastrutture ed entusiasta sponsor del ponte, a mostrare le stesse perplessità qualche anno fa: «Dicono che non sta in piedi».

Qui mi fermo; il progetto esecutivo è ovviamente corredato di tutte le autorizzazioni, certificazioni, validazioni prescritte dalle norme. Segnalo solo, in ultimo, le criticità evidenziate recentemente dalla trasmissione Report relative a procedure di aggiornamento del progetto (rispetto a quello di berlusconiana genesi approvato nel 2011), un po’ troppo rapide a fronte della complessità dell’opera che dovrà affrontare, speriamo in omnia saecula, sismi, vento e usura (e dando per scontato che i mitologici mostri Scilla e Cariddi non costituiscano un pericolo concreto:). Cos’altro dire: orsù, alle ruspe!

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