di Giuseppe Castro
L’Unione Europea, con posizione comune 2001/931/PESC, definisce il terrorismo come un atto intenzionale commesso al fine di intimidire seriamente la popolazione, destabilizzare gravemente o distruggere le strutture politiche, costituzionali, economiche o sociali fondamentali di un paese o di un’organizzazione internazionale. È considerato terrorismo la manomissione o l’interruzione della fornitura di acqua, energia o altre risorse naturali fondamentali il cui effetto metta in pericolo vite umane.
Sulla base di questa definizione è molto difficile non considerare terrorismo alcune delle azioni militari dell’esercito israeliano a Gaza: distruzione degli ospedali, vasto utilizzo di dumb bomb (bombe non guidate, sparate a caso con le conseguenze che possiamo immaginare), distruzione capillare dei servizi idrici ed elettrici. La morte di alcuni ostaggi per fuoco amico quando questi si sono presentati ai militari israeliani con la bandiera bianca pone inoltre più di qualche dubbio sul trattamento riservato ai prigionieri palestinesi dopo un’eventuale resa. Se una risposta militare dopo l’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre era probabilmente necessaria, questa sembra essere rapidamente sfuggita di mano sia per i numeri di civili coinvolti che per l’entità delle devastazioni.
Sembra evidente che sia la popolazione israeliana che quella palestinese siano nelle mani di classi dirigenti – Hamas e OLP per i palestinesi, l’estrema destra di Netanyahu per Israele – totalmente inadeguate alla gestione di questo momento storico. Se da un lato Hamas ha da tempo intrapreso una deriva estremista e antisemita (ancora nel 2006 era tuttavia disposta a riconoscere Israele e rinunciare al terrorismo), dall’altra il governo israeliano ha dimostrato un’analoga deriva antipalestinese negli ultimi anni. Il quadro fornito ultimamente dal governo di Gerusalemme è imbarazzante: ricordiamo la proposta di bombardare Gaza con armi nucleari (Amihai Eliyahu, ministro) o quella di indurre l’emigrazione di massa dei palestinesi (Itamar Ben-Gvir, altro ministro).
Non scherza nemmeno l’ideona di far durare la guerra per tutto il 2024 (Netanyahu, primo ministro) dopo i 23mila morti avuti in soli tre mesi. Ma non bisogna nemmeno dimenticarsi che la carriera politica di Netanyahu rischia di concludersi malamente con la fine della guerra. Netanyahu non ha quindi alcun interesse a perseguire la pace, anche qualora questa fosse a portata di mano.
Se una soluzione alla crisi di Gaza esiste, quindi, questa non sarà mai fornita dai governi dei due popoli coinvolti nel conflitto. La soluzione può solo provenire dall’esterno. Se noi, come comunità internazionale, siamo gli unici a poter fermare questo orrore, è necessario chiederci cosa possiamo fare per la pace. Il supporto incondizionato ad Israele si è dimostrato un errore. In questi mesi ha semplicemente indotto il governo di Israele a convincersi del sostegno (o dell’indifferenza) internazionale di fronte ad ogni suo intervento militare, inclusi i più aberranti tra questi.
In passato la comunità internazionale è riuscita a indurre la coesistenza pacifica tra gruppi etnici in lotta tra loro. Ne è un esempio il Sudafrica, dove l’apartheid è terminato anche e soprattutto grazie alle pressioni internazionali (con annesse sanzioni mirate) verso i gruppi politici che si opponevano ad una soluzione inclusiva. Le sanzioni internazionali hanno permesso la rinascita della nazione africana, favorendo il ricambio della classe dirigente. Proprio il Sudafrica, forse memore del suo passato, ha portato Israele di fronte alla Corte di Giustizia Onu per bloccare il conflitto.
Continuare ad essere indifferenti ci renderà esclusivamente corresponsabili di quanto sta avvenendo. Se vogliamo aiutare israeliani e palestinesi a vivere in pace è d’obbligo quantomeno isolare (se necessario con sanzioni) i governi coinvolti nella deriva militare e cominciare a sostenere, e non solo a parole, il diritto all’esistenza di due Stati.