di Barbara Pigoli*

A quasi vent’anni dall’istituzione dei Fondi Paritetici Interprofessionali Nazionali per la Formazione Continua, ci dobbiamo porre qualche domanda.

Che fine ha fatto la bilateralità nella contrattazione per la formazione? Come mai la regolazione dei finanziamenti per la formazione si basa principalmente su passaggi tecnici ben lontani dal portato di senso che dovrebbero agire? E’ mai possibile che i bisogni dei lavoratori, che hanno evidentemente interessi recessivi nella contrattazione della formazione, siano sistematicamente i perdenti in questa partita? Ma davvero la “pariteticità” consiste solo in una bella firma ex post per candidare piani formativi concordati dagli enti di formazione con il management delle imprese? E via così.

Le giovani leve appena iscritte a Scienze della formazione saranno entusiaste di sapere che dal 2004 il contributo obbligatorio per la disoccupazione involontaria (previsto dalla Legge 845/1978), e si sottolinea obbligatorio – ovvero lo 0,30% della retribuzione dei lavoratori – può essere destinato per pagare Piani Formativi (aziendali, territoriali, settoriali, individuali). I più curiosi andranno sicuramente a spulciare la norma istitutiva dei Fondi Paritetici (l’Art. 118 della legge finanziaria 388/2000), dove si esplicita che i Fondi hanno la finalità di pagare piani formativi aziendali, territoriali, settoriali o individuali concordati tra le parti sociali, in un’ottica di competitività delle imprese e di garanzia di occupabilità dei lavoratori.

Che bellezza, con un portato sociale innovativo: trovare e realizzare quella formazione che serve alle persone e alle organizzazioni, evitando l’obsolescenza delle competenze. Il che farebbe supporre che tutte le domande di finanziamento per la formazione prevedano un confronto bilaterale fra imprese e lavoratori, con il compito di definire congiuntamente i fortunati destinatari dei corsi (i lavoratori che hanno bisogno di formazione per fare bene il proprio lavoro), e soprattutto i fabbisogni specifici cui la formazione finanziata dovrebbe rispondere. Immaginiamo come potrebbe essere: ci si trova sistematicamente intorno ad un tavolo, ci si assume la responsabilità delle istanze rappresentate (il che presuppone un rapporto continuativo sia con le imprese che con i lavoratori) e si concordano le azioni formative necessarie ad aiutare lavoratori e imprese ad acquisire le competenze giuste per mantenere rispettivamente il posto di lavoro e la posizione sul mercato (e solo successivamente si affida a un ente di formazione qualificato la messa in opera della formazione).

Ma chi dovrebbe farlo? Ovviamente le associazioni datoriali (per le imprese) e le rappresentanze sindacali (per i lavoratori). E per farlo, le parti dovrebbero conoscere i mercati, le imprese e il mismatch di competenze dei lavoratori. Troppo bello per essere vero. Ma accade nella realtà? A volte sì, a volte no. A caso. Ma non troppo. Sicuramente accade nei fortunati casi in cui sono presenti (attive e competenti in materia di formazione) le rappresentanze sindacali all’interno delle imprese. E negli altri casi? Nel sistema Italia, con una struttura produttiva caratterizzata dalla presenza di imprese di piccola e media dimensione, che impiegano circa l’80% dei lavoratori complessivi, in assenza di rappresentanze sindacali, la condizione di svantaggio è evidente. Nei casi meno fortunati accade che gli enti di formazione, con legittime istanze di vendita in quanto operano sul libero mercato, propongono al management delle imprese la formazione finanziata “che serve”.

Quando il management (imprenditori, hr, risorse umane, chiamateli come vi pare) sceglie quali lavoratori coinvolgere (ma non saranno per caso sempre i soliti talentuosi a discapito di chi ne avrebbe davvero bisogno?), l’ente di formazione (molto preparato tecnicamente) scrive il piano formativo, che presenta alle parti sociali per la firma (e la bilateralità che fine ha fatto?). Mi rivolgo a voi, giovani iscritti a Scienze della formazione, che un domani gestirete i piani formativi aziendali. Se un’azienda paga la formazione, è legittimo che coinvolga chi vuole e scelga i corsi di formazione che ritiene adeguati alla propria competitività. Se invece utilizza denaro “collettivo”, ha il dovere di includere nella formazione chi ne ha realmente bisogno per mantenere il proprio posto di lavoro. A proposito di politiche attive che dovrebbero contribuire ad aumentare l’occupabilità delle persone. Evitando magari di fare scivolare i lavoratori meno qualificati nelle politiche passive.

* Laurea Magistrale in Scienze Politiche (Università degli Studi di Milano) e Master in Lobbying & Public Affairs (Università LUMSA di Roma). Da sempre impegnata nel sistema della formazione continua e delle politiche attive per la formazione, per 11 anni ho diretto un ente di formazione del sistema confindustriale (FormaMec ANIMA). Attualmente opero come libera professionista.

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