I ricchi, nella storia delle società occidentali, sono sempre stati visti con un certo sospetto. Per giustificare la propria posizione, a partire dall’antichità classica hanno svolto un ruolo preciso: contribuire a integrare i bilanci pubblici nei periodi di difficoltà. Mettere mano al portafoglio, insomma, per aiutare le comunità in cui vivevano. Ma durante le crisi del XXI secolo, dalla grande recessione del 2008 al Covid fino alle conseguenze delle guerre in Ucraina e in Medio Oriente, questo equilibrio è saltato: i molto abbienti si sono ulteriormente arricchiti ma il loro contributo finanziario non si è visto. E la politica non ha voluto o potuto pretenderlo. Il contratto sociale che da centinaia di anni rende accettabile la concentrazione di grandi fortune in poche mani è stato rinnegato. È la conclusione a cui arriva Guido Alfani, professore di Storia economica alla Bocconi, nelle 440 pagine di As Gods Among Men – A History of the Rich in the West (Princeton University Press), in uscita in Europa il 30 gennaio. “Se le cose continuano così”, commenta il docente con Ilfattoquotidiano.it, “credo che i segnali di fermento in termini di instabilità sociale e politica non potranno che intensificarsi. Mi auguro che non si arrivi a un esito troppo violento, ma piuttosto alla comprensione che occorre fare qualcosa”.
In che termini, in passato, i ricchi hanno supportato la società nei momenti più difficili?
La guerra è un ottimo esempio: dal Medioevo fino alle guerre mondiali hanno accettato di concedere prestiti più o meno forzosi ai governi. Una sorta di “coscrizione del capitale”. Durante le crisi finanziarie, poi, i super ricchi erano spesso in grado di salvare da soli dalla bancarotta la propria città – penso al caso di Cosimo de’ Medici a Firenze – o impedire un collasso bancario – lo fece J.P. Morgan nel 1907 mobilitando anche le proprie relazioni nell’ambito delle élite di New York. In seguito il contributo di chi deteneva ingenti risorse è passato per la fiscalità, che a partire dal periodo delle Guerre Mondiali è diventata più intensa e fortemente progressiva. Questo, andando di pari passo con lo sviluppo del sistema di welfare, ha consentito fino all’inizio degli anni 70 di ridurre in maniera abbastanza evidente la disuguaglianza.
Durante le ultime crisi le cose sono andate diversamente. Gli aiuti a famiglie e imprese sono stati finanziati aumentando i debiti pubblici, destinati a pesare sull’intera collettività.
Dalla società è arrivata la richiesta che i ricchi contribuissero maggiormente, ma non se n’è fatto nulla. Pochissimi Paesi sono arrivati a imporre anche solo un’imposta di solidarietà temporanea. Durante la precedente campagna elettorale Usa, Joe Biden si è espresso per una maggiore tassazione sui più ricchi, poi non è riuscito a costruire un supporto politico sufficiente a introdurre una riforma del genere.
Perché?
C’è un grande paradosso: nonostante survey e studi sociologici ci dicano che c’è ampio consenso sulla necessità che i più abbienti paghino di più, questo non riesce a tradursi in politiche ad hoc. Forse gli stessi cittadini faticano ad accettare l’idea che per arrivarci serva un ripensamento importante del sistema fiscale. E la politica continua a nutrire la convinzione che a parlare di tasse si perdano le elezioni (a meno di non limitarsi a dire che verranno abbassate). Al contrario, credo che per i partiti di centrosinistra proprio il non parlarne pesi negativamente alle urne. Le riforme fiscali influenzano l’organizzazione della società.
Nel libro lei ricorda che in passato, quando i ricchi sono stati percepiti come indifferenti alle condizioni delle masse o sospettati di aver tratto beneficio dalle crisi, il risultato sono state rivolte e violenza. Rischiamo di arrivarci anche oggi?
In una società democratica possiamo augurarci che le richieste degli elettori portino alla costruzione di un consenso politico per cambiare le cose. Ma al momento non credo ci stiamo avvicinando a quell’esito. I segnali di fermento in termini di instabilità sociale e politica non potranno che intensificarsi.
Quelle di Reagan e Thatcher, con riduzioni delle aliquote più alte e abbattimento delle tasse sulle eredità, hanno favorito la concentrazione di ricchezza nelle mani di una ristretta minoranza. Quanto ha pesato l’influenza delle fasce più ricche sul potere politico?
L’impressione è che in quella fase i partiti di centrodestra stessero semplicemente cercando proposte nuove. Più avanti, negli anni ’90, l’aumento delle disuguaglianze potrebbe invece aver in effetti favorito una maggiore influenza della grande ricchezza sulla politiche e quindi anche sulle politiche fiscali. È difficile da dimostrare ma il sospetto è forte. E se fosse andata così la democrazia occidentale avrebbe un problema. Di sicuro, da quel momento in poi si è persa l’idea che l’imposizione dovesse essere molto progressiva e che le eredità dovessero essere tassate per livellare le condizioni di partenza.
Quali altri fattori hanno contribuito a farci arrivare a un punto in cui i ricchi sono spesso percepiti come “profittatori”?
C’entrano il ruolo molto maggiore della finanza nell’economia e nei percorsi per l’acquisizione di grandi ricchezze: dal punto di vista culturale, in Occidente arricchirsi scambiando titoli e facendo girare denaro è percepito come meno legittimo rispetto all’arricchimento legato a beni fisici. Pesa anche il fatto che, dopo la crisi del 2008, siano presto tornati in auge i grandi bonus per i manager e i maxi dividendi per gli azionisti: l’impressione è stata che, se c’erano dei responsabili, non abbiano pagato. C’è di più: tutte le crisi fanno vincitori e vinti, ma quando a chi si arricchisce non viene chiesto di contribuire più degli altri alle politiche necessarie per uscirne è normale che si diffonda lo scontento.
Molti super ricchi potrebbero rispondere che danno il proprio contributo attraverso la beneficenza. Quindi in via del tutto discrezionale e con l’effetto collaterale di pagare meno tasse, visto che i soldi donati sono detraibili.
Dal punto di vista storico la beneficenza è un modo per adempiere a una funzione sociale positiva. Ma se parliamo delle moderne società occidentali democratiche il discorso cambia. Mentre il prelievo fiscale comporta che la collettività decida attraverso le sue istituzioni come utilizzare le risorse, con il “giving” i ricchi si arrogano il diritto di decidere come impiegarle e in più ne traggono qualcosa in cambio. Anche nella forma di un’influenza in ambito culturale e politico da cui derivano potenziali benefici dal punto di vista economico. Torno alla storia: un tempo c’era una chiara distinzione tra “carità” e “magnificenza“. La seconda serviva anche a dimostrare di avere una sorta di diritto a governare. Quando Cosimo de’ Medici venne richiamato a Firenze per salvarla e iniziò a dispiegare la sua magnificenza, era chiaro a tutti che lo faceva anche per accompagnare la sua ascesa politica.
Campagne come In tax we trust, promosse da gruppi di molto facoltosi, chiedono un sistema fiscale giusto anche per correggere il giudizio della società nei confronti dei ricchi. Stando a un sondaggio commissionato da Patriotic Millionaires, tre quarti dei milionari sono a favore di maggiori tasse sulla ricchezza. Segnali di una possibile inversione di rotta o tentativi di migliorare la reputazione dello “0,1%”?
La mia impressione è che siano sinceri. Il fatto che si pongano il problema suggerisce che sta diventando ineludibile, soprattutto in un Paese come gli Usa in cui, come disse Warren Buffett, “la mia segretaria paga più tasse di me”. Dobbiamo però tener presente che quella campagna è animata da persone molto benestanti – milionari – ma non necessariamente super ricche. Diversi miliardari hanno invece aderito al Giving pledge, che è solo un impegno a fare beneficenza.
Perché in Italia anche un’ampia fetta di ceto medio tende a percepire le ipotesi di patrimoniale come una minaccia?
Come dicevo, si è diffusa l’idea che le tasse debbano essere riformate solo per ridurle. In più sospetto che il ceto medio non si renda conto che già oggi i patrimoni sono tassati e con modalità non necessariamente progressive, che possono avere nel loro insieme anche effetti perversi.
Qual è il suo giudizio sull’ipotesi di una tassa sui grandi patrimoni?
La mia opinione personale è che, visto l’impatto della trasmissione ereditaria nel creare dinastie della ricchezza, bisognerebbe partire dalla tassazione delle eredità. Ha una motivazione teorica molto forte: prelevare risorse con cui migliorare l’accesso all’istruzione e ad altri servizi, in modo da garantire a tutti le stesse opportunità di successo nella vita. In un secondo momento si potrebbe parlare anche di tassazione dei patrimoni, magari nell’ambito di una discussione su come reperire risorse per esigenze come la riduzione del debito.
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Il Fatto è partner di Oxfam nella campagna di raccolta firme per chiedere l’introduzione nell’Unione Europea di un’imposta sui grandi patrimoni. Qui il link al sito La Grande Ricchezza da cui è possibile aderire
Economia
“I ricchi hanno abdicato al loro storico ruolo: non contribuiscono più con le tasse a pagare il conto delle crisi. Si rischia l’instabilità sociale”
Guido Alfani, docente di Storia economica alla Bocconi e autore di As Gods Among Men - A History of the Rich in the West (Princeton University Press), che esce in Europa il 30 gennaio: "Mi auguro che non si arrivi a un esito troppo violento, ma piuttosto alla comprensione che occorre fare qualcosa". E spiega perché la beneficenza non basta
I ricchi, nella storia delle società occidentali, sono sempre stati visti con un certo sospetto. Per giustificare la propria posizione, a partire dall’antichità classica hanno svolto un ruolo preciso: contribuire a integrare i bilanci pubblici nei periodi di difficoltà. Mettere mano al portafoglio, insomma, per aiutare le comunità in cui vivevano. Ma durante le crisi del XXI secolo, dalla grande recessione del 2008 al Covid fino alle conseguenze delle guerre in Ucraina e in Medio Oriente, questo equilibrio è saltato: i molto abbienti si sono ulteriormente arricchiti ma il loro contributo finanziario non si è visto. E la politica non ha voluto o potuto pretenderlo. Il contratto sociale che da centinaia di anni rende accettabile la concentrazione di grandi fortune in poche mani è stato rinnegato. È la conclusione a cui arriva Guido Alfani, professore di Storia economica alla Bocconi, nelle 440 pagine di As Gods Among Men – A History of the Rich in the West (Princeton University Press), in uscita in Europa il 30 gennaio. “Se le cose continuano così”, commenta il docente con Ilfattoquotidiano.it, “credo che i segnali di fermento in termini di instabilità sociale e politica non potranno che intensificarsi. Mi auguro che non si arrivi a un esito troppo violento, ma piuttosto alla comprensione che occorre fare qualcosa”.
La guerra è un ottimo esempio: dal Medioevo fino alle guerre mondiali hanno accettato di concedere prestiti più o meno forzosi ai governi. Una sorta di “coscrizione del capitale”. Durante le crisi finanziarie, poi, i super ricchi erano spesso in grado di salvare da soli dalla bancarotta la propria città – penso al caso di Cosimo de’ Medici a Firenze – o impedire un collasso bancario – lo fece J.P. Morgan nel 1907 mobilitando anche le proprie relazioni nell’ambito delle élite di New York. In seguito il contributo di chi deteneva ingenti risorse è passato per la fiscalità, che a partire dal periodo delle Guerre Mondiali è diventata più intensa e fortemente progressiva. Questo, andando di pari passo con lo sviluppo del sistema di welfare, ha consentito fino all’inizio degli anni 70 di ridurre in maniera abbastanza evidente la disuguaglianza.
Durante le ultime crisi le cose sono andate diversamente. Gli aiuti a famiglie e imprese sono stati finanziati aumentando i debiti pubblici, destinati a pesare sull’intera collettività.
Dalla società è arrivata la richiesta che i ricchi contribuissero maggiormente, ma non se n’è fatto nulla. Pochissimi Paesi sono arrivati a imporre anche solo un’imposta di solidarietà temporanea. Durante la precedente campagna elettorale Usa, Joe Biden si è espresso per una maggiore tassazione sui più ricchi, poi non è riuscito a costruire un supporto politico sufficiente a introdurre una riforma del genere.
Perché?
C’è un grande paradosso: nonostante survey e studi sociologici ci dicano che c’è ampio consenso sulla necessità che i più abbienti paghino di più, questo non riesce a tradursi in politiche ad hoc. Forse gli stessi cittadini faticano ad accettare l’idea che per arrivarci serva un ripensamento importante del sistema fiscale. E la politica continua a nutrire la convinzione che a parlare di tasse si perdano le elezioni (a meno di non limitarsi a dire che verranno abbassate). Al contrario, credo che per i partiti di centrosinistra proprio il non parlarne pesi negativamente alle urne. Le riforme fiscali influenzano l’organizzazione della società.
Nel libro lei ricorda che in passato, quando i ricchi sono stati percepiti come indifferenti alle condizioni delle masse o sospettati di aver tratto beneficio dalle crisi, il risultato sono state rivolte e violenza. Rischiamo di arrivarci anche oggi?
In una società democratica possiamo augurarci che le richieste degli elettori portino alla costruzione di un consenso politico per cambiare le cose. Ma al momento non credo ci stiamo avvicinando a quell’esito. I segnali di fermento in termini di instabilità sociale e politica non potranno che intensificarsi.
Quelle di Reagan e Thatcher, con riduzioni delle aliquote più alte e abbattimento delle tasse sulle eredità, hanno favorito la concentrazione di ricchezza nelle mani di una ristretta minoranza. Quanto ha pesato l’influenza delle fasce più ricche sul potere politico?
L’impressione è che in quella fase i partiti di centrodestra stessero semplicemente cercando proposte nuove. Più avanti, negli anni ’90, l’aumento delle disuguaglianze potrebbe invece aver in effetti favorito una maggiore influenza della grande ricchezza sulla politiche e quindi anche sulle politiche fiscali. È difficile da dimostrare ma il sospetto è forte. E se fosse andata così la democrazia occidentale avrebbe un problema. Di sicuro, da quel momento in poi si è persa l’idea che l’imposizione dovesse essere molto progressiva e che le eredità dovessero essere tassate per livellare le condizioni di partenza.
Quali altri fattori hanno contribuito a farci arrivare a un punto in cui i ricchi sono spesso percepiti come “profittatori”?
C’entrano il ruolo molto maggiore della finanza nell’economia e nei percorsi per l’acquisizione di grandi ricchezze: dal punto di vista culturale, in Occidente arricchirsi scambiando titoli e facendo girare denaro è percepito come meno legittimo rispetto all’arricchimento legato a beni fisici. Pesa anche il fatto che, dopo la crisi del 2008, siano presto tornati in auge i grandi bonus per i manager e i maxi dividendi per gli azionisti: l’impressione è stata che, se c’erano dei responsabili, non abbiano pagato. C’è di più: tutte le crisi fanno vincitori e vinti, ma quando a chi si arricchisce non viene chiesto di contribuire più degli altri alle politiche necessarie per uscirne è normale che si diffonda lo scontento.
Molti super ricchi potrebbero rispondere che danno il proprio contributo attraverso la beneficenza. Quindi in via del tutto discrezionale e con l’effetto collaterale di pagare meno tasse, visto che i soldi donati sono detraibili.
Dal punto di vista storico la beneficenza è un modo per adempiere a una funzione sociale positiva. Ma se parliamo delle moderne società occidentali democratiche il discorso cambia. Mentre il prelievo fiscale comporta che la collettività decida attraverso le sue istituzioni come utilizzare le risorse, con il “giving” i ricchi si arrogano il diritto di decidere come impiegarle e in più ne traggono qualcosa in cambio. Anche nella forma di un’influenza in ambito culturale e politico da cui derivano potenziali benefici dal punto di vista economico. Torno alla storia: un tempo c’era una chiara distinzione tra “carità” e “magnificenza“. La seconda serviva anche a dimostrare di avere una sorta di diritto a governare. Quando Cosimo de’ Medici venne richiamato a Firenze per salvarla e iniziò a dispiegare la sua magnificenza, era chiaro a tutti che lo faceva anche per accompagnare la sua ascesa politica.
Campagne come In tax we trust, promosse da gruppi di molto facoltosi, chiedono un sistema fiscale giusto anche per correggere il giudizio della società nei confronti dei ricchi. Stando a un sondaggio commissionato da Patriotic Millionaires, tre quarti dei milionari sono a favore di maggiori tasse sulla ricchezza. Segnali di una possibile inversione di rotta o tentativi di migliorare la reputazione dello “0,1%”?
La mia impressione è che siano sinceri. Il fatto che si pongano il problema suggerisce che sta diventando ineludibile, soprattutto in un Paese come gli Usa in cui, come disse Warren Buffett, “la mia segretaria paga più tasse di me”. Dobbiamo però tener presente che quella campagna è animata da persone molto benestanti – milionari – ma non necessariamente super ricche. Diversi miliardari hanno invece aderito al Giving pledge, che è solo un impegno a fare beneficenza.
Perché in Italia anche un’ampia fetta di ceto medio tende a percepire le ipotesi di patrimoniale come una minaccia?
Come dicevo, si è diffusa l’idea che le tasse debbano essere riformate solo per ridurle. In più sospetto che il ceto medio non si renda conto che già oggi i patrimoni sono tassati e con modalità non necessariamente progressive, che possono avere nel loro insieme anche effetti perversi.
Qual è il suo giudizio sull’ipotesi di una tassa sui grandi patrimoni?
La mia opinione personale è che, visto l’impatto della trasmissione ereditaria nel creare dinastie della ricchezza, bisognerebbe partire dalla tassazione delle eredità. Ha una motivazione teorica molto forte: prelevare risorse con cui migliorare l’accesso all’istruzione e ad altri servizi, in modo da garantire a tutti le stesse opportunità di successo nella vita. In un secondo momento si potrebbe parlare anche di tassazione dei patrimoni, magari nell’ambito di una discussione su come reperire risorse per esigenze come la riduzione del debito.
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Il Fatto è partner di Oxfam nella campagna di raccolta firme per chiedere l’introduzione nell’Unione Europea di un’imposta sui grandi patrimoni. Qui il link al sito La Grande Ricchezza da cui è possibile aderire
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Quella bufala di Meloni sul “credito aumentato” dopo la tassa sugli extraprofitti (che nessuna banca ha pagato)
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Il responsabile Italia dell’Ocse: “Per aiutare chi ha redditi bassi serve l’Imu prima casa (con un catasto aggiornato) e più tasse sulle eredità”
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Mondo
Trump “aiuterà Kiev ad avere più difesa aerea dall’Ue” e ipotizza controllo Usa delle centrali ucraine. Zelensky: “Possibile pace quest’anno”
Politica
La Lega alla Camera: “Dov’è l’emergenza per il riarmo da 800 miliardi?”. Meloni in Aula si scaglia contro il Manifesto di Ventotene. Le opposizioni in rivolta
Politica
“Più efficienza bellica in tempi di pace per inevitabili guerre”: così il Manifesto parla dell’Ue di oggi
Roma, 19 mar. - (Adnkronos) - Nessun cambiamento di linea da parte della Federal Reserve: con un voto quasi all'unanimità - un solo contrario - i membri del Fomc, il comitato di politica monetaria della banca centrale americana, hanno infatti deciso di mantenere fermo l'intervallo di riferimento per il tasso dei federal funds al 4,25%-4,50%. Ala base della decisione, si sottolinea nel comunicato finale, un livello di inflazione "che rimane piuttosto elevato".
Roma, 19 mar. (Adnkronos) - "Trump annuncia dazi ma anziché alzare la voce con Trump, Meloni se la prende con l'Ue che cerca di reagire". Lo dice Elly Schlein nelle dichiarazioni di voto alla Camera.
Roma, 19 mar. (Adnkronos) - "Il piano Rearm Eu va nella direzione di favorire soprattutto il riarmo di 27 Stati membri. L'unico contributo al dibattito che ha dato Meloni è stato quello di chiedere che sia cambiato il nome. E invece è quel piano che va cambiato radicalmente perchè allontana una vera difesa comune europea. Serve la difesa comune e non la corsa al riarmo dei singoli Stati" e va fatta "con gli investimenti comuni e col debito europeo, non col debito nazionale". Lo ha detto Elly Schlein nelle dichiarazioni di voto alla Camera.
Roma, 19 mar. (Adnkronos) - L’ambiente domestico italiano si sta trasformando, con una crescente adozione di tecnologie smart per la pulizia che promettono di semplificare la vita e liberare tempo prezioso. A fare luce su questa tendenza è una ricerca commissionata da Roborock, leader mondiale nella robotica domestica ultra-intelligente, e condotta da Bva Doxa, azienda leader nelle ricerche di mercato in Italia e parte del gruppo Bva. Lo studio svela un mercato in fermento, con un elevato livello di conoscenza dei robot aspirapolvere e un apprezzamento diffuso per i benefici che offrono. L'indagine ha permesso di delineare diversi profili attitudinali tra gli italiani, evidenziando come l'approccio alle pulizie automatizzate sia tutt'altro che uniforme: a dominare il panorama è il "Pragmatico Digitale" (62%), che valuta attentamente l'efficacia delle nuove tecnologie prima di adottarle. Seguono i "Tech-Entusiasti" (25%), maggiormente propensi a introdurre l'innovazione nelle loro case, con una maggiore concentrazione tra gli uomini (circa il 30%) e nella fascia d'età 25-44 anni. Gli "Scettici Tradizionalisti" rappresentano invece il 13% del campione, con una rappresentanza significativa di intervistati over 45.
La ricerca Doxa dipinge un quadro chiaro: i robot aspirapolvere non sono più un oggetto ostico e di difficile gestione, ma una presenza sempre più familiare nelle case degli italiani, in particolare in quelle in cui vivono animali domestici. Il 90% degli intervistati dichiara di conoscere questi dispositivi, segno di una crescente consapevolezza dei vantaggi che possono offrire. Non si tratta solo di conoscenza teorica, ma anche di apprezzamento concreto: il 70% degli italiani ritiene che i robot aspirapolvere semplifichino la vita, liberando tempo da dedicare ad attività più piacevoli delle faccende domestiche. Un ulteriore dato interessante riguarda la percezione di competenza: il 61% degli italiani si sente competente nell'uso dei robot aspirapolvere, segno di una buona familiarità con la tecnologia e di una crescente fiducia nelle proprie capacità di gestirla al meglio.
Per i pet owner, poi, i robot aspirapolvere rappresentano un vero e proprio alleato nella lotta contro peli, sporco e allergeni, contribuendo a mantenere un ambiente domestico più pulito e salubre. Non a caso, il 68% dei possessori di animali domestici li considera strumenti almeno molto utili, con un picco del 32% che li definisce "estremamente utili". Questo beneficio è particolarmente sentito nelle regioni del Sud, dove le attività all'aperto possono portare più sporco in casa.
Nel contesto generale emerge chiaramente quanto gli italiani abbiano a cura la pulizia della casa, dedicandole oltre sei ore a settimana nel 25% dei casi. Nel dettaglio, il 59% degli intervistati – principalmente donne – dichiara di essere l’unico in famiglia a prendersi carico da solo di questo compito. Spicca quindi come molto positivo il supporto di aspirapolvere robot: coloro che già li utilizzano, apprezzano soprattutto il tempo risparmiato, che può essere dedicato ad attività piacevoli e gratificanti. Nello specifico, il 37% degli intervistati dichiara di utilizzare questo tempo per prendersi cura di sé, con una maggiore propensione da parte delle donne (43%) che dichiarano di trovare finalmente spazio per il ‘me-time’ e il benessere personale. Un altro 32% lo dedica invece a trascorrere più tempo con la famiglia.
La ricerca ha inoltre evidenziato come l'adozione di un robot per la pulizia dei pavimenti porti, per quasi due intervistati su tre tra i possessori di un robot, a una significativa riduzione del carico di lavoro, con il 27% che ha visto un miglioramento per tutti i componenti della famiglia. Tale percezione è particolarmente sentita dai "Tech-Entusiasti" (74%), dagli uomini (66%) e dagli abitanti del Sud Italia (67%). Inoltre, il 27% si aspetta una gestione più equa dei compiti domestici tra i membri del nucleo familiare, contribuendo a un ambiente più armonioso tra le mura di casa.
Gli italiani guardano al futuro con fiducia, immaginando un mondo in cui i robot aspirapolvere saranno sempre più integrati nella vita quotidiana. Il 73% degli intervistati è convinto che questi dispositivi diventeranno la norma entro i prossimi dieci anni, segno di una crescente fiducia nelle potenzialità dell'automazione domestica. Le aspettative per il futuro si concentrano su una maggiore capacità di pulizia e sanificazione degli ambienti domestici (26%), sulla capacità dei robot di adattarsi alle esigenze specifiche di ogni casa (25%) e sulla possibilità di automatizzare sempre più la pulizia e la manutenzione (25%).
Nonostante l'interesse e l'apprezzamento, la ricerca Doxa per Roborock evidenzia alcune barriere che frenano un'adozione ancora più ampia dei robot aspirapolvere. Il costo iniziale elevato rappresenta la principale preoccupazione per il 43% degli italiani, che cercano soluzioni accessibili e con un buon rapporto qualità-prezzo. Da evidenziare, però, come chi abbia già un robot sia propenso ad una spesa più elevata rispetto alla media, riconoscendo il valore aggiunto dello strumento: tra chi è disposto a spendere oltre 200 euro, infatti, il 76% è già possessore di questo device. Altre perplessità riguardano l'affidabilità (25%) e l'autonomia delle batterie (24%), che devono garantire una pulizia completa e senza interruzioni.
Anche gli ingombri domestici rappresentano un ostacolo significativo: il 79% degli intervistati ritiene che i robot abbiano difficoltà a navigare in ambienti con molti ostacoli, come mobili, tappeti e, soprattutto, giocattoli e accessori per animali domestici. Questo aspetto è particolarmente rilevante per chi vive in contesti più piccoli, dove lo spazio è limitato e gli ostacoli sono più frequenti.
Infine, la fiducia nell'automazione completa è ancora in fase di sviluppo: solo il 21% si dichiara totalmente disponibile a delegare la gestione manuale, mentre il 56% preferisce un approccio graduale, che consenta di mantenere un certo controllo sulle attività di pulizia, soprattutto in presenza di animali domestici che richiedono un'attenzione particolare.
Roma, 19 mar. (Adnkronos) - "Oggi lei ha deciso di oltraggiare la memoria europea ma noi non accetteremo tentativi di riscrivere la storia. Il Manifesto di Ventotene è riconosciuto in tutta Europa come base su cui è fondata l'Unione. Scritto da giovani antifascisti mandati al confino dai fascisti che non risposero all'odio con altro odio". Lo ha detto Elly Schlein nelle dichiarazioni di voto alla Camera.
Roma, 19 mar. (Adnkronos) - "Chiedo a Giorgia Meloni quali interessi sta facendo: quelli dell'Italia o quelli degli amici? Voleva fare la pontiera e invece di si è ridotta a complice silenziosa di Trump". Lo ha detto Elly Schlein nelle dichiarazioni di voto alla Camera.
"La voglio rassicurare: tutti sappiamo che l'Europa non può far affidamento su nessuno per la sua sicurezza e che nessuno pensa di rinunciare al rapporto con gli Stati Uniti ma di fonte agli insulti si reagisce e invece lei è rimasta muta. La vostra è una neutralità ideologica di chi non sa scegliere tra l'Europa e Trump. Questo silenzio a testa bassa relega il nostro Paese ai margini".
Roma, 19 mar (Adnkronos) - "Nella vostra risoluzione per non dividervi in tre posizioni diverse avete fato sparire la Difesa comune e il piano di riamo di Ursula von der Leyen, l'avete scritta con l'inchiostro simpatico. Facile far sparire le proposte divisive, ci credo che siete compatti, non avete scritto nulla". Lo ha detto Elly Schlein alla Camera.