La Camera ha approvato il ddl di ratifica dell’accordo Italia-Albania sui migranti, che prevede l’apertura di due Cpr in territorio albanese con una capienza massima di 3.000 persone. I voti a favore sono stati 155, quelli contrari 115, due gli astenuti, con applauso finale dei partiti di governo. Il ddl passa così all’esame del Senato, dopo la discussione in Aula a Montecitorio iniziata lunedì 22 gennaio e i precedenti lavori in commissioni riunite Affari costituzionali e Affari esteri alla Camera, dove gli emendamenti delle opposizioni sono stati tutti respinti. Prima del voto è stato respinto anche l’ordine del giorno dei deputati Pd per impegnare il governo a relazionare alle Camere con cadenza semestrale sull’attuazione del protocollo. La maggioranza, dunque, tira dritto e conferma l’avversione per un passaggio parlamentare mai voluto, tanto che inizialmente ha provato a negarne la necessità nonostante lo imponga la Costituzione.
Ma se in Italia si procede, in Albania si attende la pronuncia della Corte costituzionale albanese, interrogata dai partiti di opposizione al premier Edi Rama. La Corte è tornata a riunirsi proprio il 24 gennaio per continuare l’esame della richiesta di 30 deputati di dichiarare incostituzionale l’accordo. Il governo di Tirana, intanto, ha dichiarato alla Corte che l’intesa con Roma è stata siglata sulla base del Trattato di amicizia con l’Italia del 1995, ratificato allora dal Parlamento italiano e per questo invocato anche dall’esecutivo Meloni nel tentativo di aggirare il passaggio in Parlamento. Ma il Trattato del 1995, come ricordato dalle opposizioni e spiegato al Fatto dal costituzionalista Paolo Bonetti, si limitava a uno specifico accordo sugli ingressi del lavoro stagionale degli albanesi: “Non c’entra nulla col tema di oggi”. Per il verdetto la Corte albanese ha tempo fino a inizio marzo e in quella sede risponderà anche alla richiesta dei deputati dell’opposizione di chiedere un parere consultivo alla Corte europea dei diritti dell’uomo.
Nell’attesa, sul versante italiano restano intatti i nodi di una strategia il cui effetto deterrente per le partenze nel Mediterraneo centrale, tutto da dimostrare, sembra l’unico al quale possa aspirare l’accordo con Tirana. Il costo emerso dai documenti presentati in commissioni riunite dal governo supera infatti gli iniziali annunci e ammonta a 670 milioni di euro, con risorse che si prevede di recuperare anche dagli accantonamenti di ministeri che nulla dovrebbero c’entrare: Università e ricerca, Turismo. “Uno spot elettorale per Giorgia Meloni pagato coi soldi degli italiani sottratti a settori chiave come la sanità, la scuola, l’istruzione”, hanno denunciato le opposizioni commentando l’approvazione del ddl di ratifica. I 670 milioni sono stati più volte messi a confronto con i 53 milioni spesi in quattro anni (2018-2021) per tutti e dieci i centri per il rimpatrio (Cpr) presenti oggi in Italia. Tutto per una capienza massimo di 3.000 persone, tra l’hotspot e il centro per il rimpatrio.
Come ha precisato lo stesso governo, interrogato durante i lavori in commissioni riunite, nei centri albanesi andranno solo maschi, sani e provenienti dai Paesi d’origine che l’Italia considera sicuri, che significa quasi esclusivamente tunisini e marocchini perché gli accordi sul rimpatrio con paesi terzi extra Ue sono pochissimi. Esclusi, come ha precisato ancora il governo, tutti i vulnerabili: “minori, donne, disabili, anziani, genitori single con figli minori, persone malate, vittime di tratta, vittime di stupri, violenza psicologica, fisica, sessuale, vittime di mutilazioni genitali”. Quindi tutti coloro che oggi partono dalla Libia e non solo. Inoltre, il turnover che secondo calcoli del governo dovrebbe permettere di arrivare almeno ai 36mila trattenimenti l’anno, potrebbe essere velocemente ridimensionato dalla realtà, viste le difficoltà a rispettare i 28 giorni entro i quali andranno processate le richieste di protezione internazionale.
Non ultimo, rimane la questione dei diritti. Di “una Guantanamo“ hanno parlato ancora una volta le opposizioni, prima e dopo il voto. Dagli screening a bordo delle navi, al diritto alla rappresentanza legale, per le opposizioni i rischi di violazione dei diritti resta alto. Perché l’Italia dovrà dimostrare di essere in grado di assicurare le stesse condizioni che potrebbe garantire se tutto avvenisse in territorio nazionale. Nel 2018, dovendosi esprimere sull’ipotesi di “Trattamento esterno delle domande di asilo e/o della procedura di rimpatrio in un paese terzo”, simile a quella contenuta nell’accordo con l’Albania, “la Commissione europea ha evidenziato che, in uno scenario siffatto, l’applicazione extraterritoriale del diritto UE “is currently neither possible nor desirable”: non è attualmente né possibile, né desiderabile“, hanno ricordato alcuni giuristi auditi in commissioni riunite.