“Tinissima”, come la chiamava la madre, è l’aggettivo che rimane incollato alla memoria dopo aver visitato la mostra che ben mette in luce il pioneristico ecclettismo di Tina Modotti, capace – di qui il superlativo – di sperimentare con viva freschezza coi nuovi ‘organi di senso’ (Béla Balázs) costituiti dalla fotografia e dal cinematografo. Contaminati con – così vuole l’avanguardia – tutto il catechismo rivoluzionario del socialismo (purtroppo) irreale perché praticato più da qualche inclassificabile ‘spirito libero’ che da quadri e Politbjuro di partito.

Ci voleva un ispirato insieme di ‘acribia’ e visione per render conto dell’anomala traiettoria di Tina Modotti, e va detto che il curatore Riccardo Costantini – ma a Roverella è spesso marchio di fabbrica – è pienamente riuscito nell’impresa, anche grazie a due ‘fiancheggiatori’ d’eccezione come il fotografo udinese Gianni Pignat e l’ubiquo Piero Colussi (tra gli ideatori dell’ormai mitologica associazione Cinemazero di Pordenone).

Ma raccontiamo un poco la protagonista. Tina abbandona Udine da giovanissima per approdare a San Francisco e comparire in breve tempo sul maxischermo, nelle espressionistiche e artificiosamente anemiche pose hollywoodiane di allora (si pensi a Lillian Gish), quasi-odalisca negli ‘sceneggiati’ in costume del muto – in The Tiger’s Coat (1920) di Roy Clements, unico mediometraggio sopravvissuto, è Maria de la Guarda, peona messicana scambiata per una ricca ereditiera scozzese e di cui la critica (imperialista e un po’ guardona) sottolinea anzitutto l’esotica sensualità: “Capelli corvini, labbra rosso sangue, occhi fumosi, pelle di tigre”. Che c’entra nulla, per questo abbandonerà quella carriera, col suo incarnato connubio di grazia e libertà, svelato invece dal bellissimo ritratto di un anonimo: disinibita delicatezza, ribadita dall’onirico languore di un primo piano firmato Edward Weston (The White Iris, 1921). Un erotismo che Hollywood può solo fraintendere e umiliare.

Ma è ai promettenti années folles messicani che bisogna guardare per incontrare Tina finalmente rivelata e passata dall’altro capo dell’obiettivo. Come spesso nella sua agitata biografia, a propiziare il turning point è un fatto tragico: il marito Robo, a Città del Messico per esporre i suoi batik, muore di vaiolo e Tina, dopo aver editato a LA un libro per commemorarlo, ne segue le tracce con Weston, già suo amante e poi iniziatore all’arte fotografica. Le vite di Tina non si negano ma si innestano una nell’altra come i moduli di quei cannocchiali estensibili che allungandosi mettono sempre più a fuoco un destino che rimane comunque indefinibile.

Prima contaminazione del suo sguardo, l’Estridentismo che concilia geometria razionalista e fatto umano: “De acero, línea, polen, se construyó tu férrea, / tu delgada estructura”, scriverà Neruda, Console Generale a Città del Messico, nella sua elegia funebre. Ed è formula che ben s’attaglia sia all’autrice che a quelle prime prove d’opera, dunque: al reticolo modernista delle impalcature (1927), alla ripartizione delle azoteas più volte immortalate per farne un tangram puramente visuale, ai bicchieri da Ballet mécanique in esposizione multipla di Esperimento di forme correlate (1924-’25), ai fusti segmentati delle Canne (1926) che segnano con grazia un telaio-tappeto verticale, al fitto filato in controluce di cavi e tralicci intersecati (Fili del telegrafo, 1924).

Qualche anno dopo un’affine ossessione costruttivista ispirerà anche i tagli di Joseph Albers – cavee, scacchiere, il ‘Tetris’ coi prismi dell’archeologia a Teotihuacan, la ‘città degli dei’, pura luce e superfici trattate come volumi suprematisti ad incastro (Tina, del resto, aveva fatto lo stesso con l’Interno della torre (1924) di una chiesa di Tepotztlán, luogo natale di Quetzalcóatl, il Serpente Piumato). Per molti versi, è già minimalismo: Donald Judd ‘sotto il vulcano’, teche di pietra e infrangibili vuoti luminosi. Una vocazione sperimentale che ritroviamo in moltissimi scatti: i fiori (Calle, 1924, ma anche Gigli, 1925) che sembrano anticipare perfino Mapplethorpe e dove non è forse esagerazione leggere una sensibilità parallela alle viscere floreali (ipnotiche pelvi che si sguainano in petali) di Giorgia O’Keeffe, che di lì a poco si sarebbe autoesiliata in Nuovo Messico. Ma c’è anche una splendida stagnola accartocciata (1926) che sembra un cliché-verre di Nino Migliori, lamette luccicanti che prismano la gelatina ancora umida: sfigurante, impazzito mosaico su pellicola.

Venendo alla passione politica, davvero commoventi le bare allineate dei campesinos dello Stato di Jalisco, scannati dai reazionari, dove emerge quell’atroce violenza padrona che forse solo Ėjzenštejn, nei suoi apocrifi Lampi sul Messico (Que viva Mexico!), sarà capace di captare con pari pietas e realismo. Toccando così il fondo disperato della ‘nuda vita’, che ritroviamo in Miseria (1928): due donne a bordostrada prostrate dall’inedia, il volto consunto, incartapecorito dagli stenti, che ripete quello della stupefacente, come da ustioni radioattive butterata Testa di Cristo (1926): lo sguardo, straziato e straziante, ci chiama in correità per tutto dolore che affligge i ‘dannati della terra’.

Ma immagine-manifesto è quella di un’adunata (collettività militante palesemente in posa kolossal, mise-en-scène à la Griffith, dunque, e pensiamo alle masse di Intolerance) che inaugura la bandiera del Soccorso Rosso a Tizayuca (1929). Dopo aver probabilmente allestito, Tina viene a occupare il primo piano in basso a sinistra. Fotografia come testimonianza – e per noi ancora Neruda: “Un mundo marcha al sitio donde tú ibas, hermana”.

Il regime del Partito Nazionale Rivoluzionario, fresco di battesimo da parte del líder maximo Plutarco Elías Calles, dominus della politica messicana dopo l’assassinio di Obregón, vedeva di malocchio l’egualitarismo militante di Tina, che dava conto del grave stato d’indigenza in cui versava gran parte della popolazione, delle condizioni di vita arretratissime, dello sfruttamento della manodopera agraria, dei territori penalizzati dallo sviluppo (apice, forse, il reportage dall’istmo ‘matriarcale’ di Tehuantepec). Non era il Messico avviato verso la modernità che s’intendeva propagandare. Venne accusata di aver concorso all’omicidio del suo amante Julio Antonio Mella, col quale stava passeggiando a pochi isolati da casa. Di grande impatto, da noir chandleriano, le foto che la ritraggono, sconvolta, mentre qualche ‘cattivo tenente’ governativo la obbliga a reinscenare in loco l’assassinio. Incarcerata con tanto di foto segnaletiche, al dibattimento una schiera di intellettuali (tra cui anche l’onnipresente Rivera) testimonia a suo favore. Viene scagionata ma è palesemente persona non gradita. Non se ne andrà finché ulteriori accuse, stavolta di complotto per aver attentato alla vita del Presidente Ortiz Rubio, non la obbligheranno a lasciare il paese.

Seguirà un decennio in dissolvenza. Raggiunge Rotterdam salpando da Veracruz e dopo un breve passaggio a Berlino è a Mosca, dove lavora come traduttrice, redige testi rivoluzionari per “Internationalnij Majak” e partecipa alla vita culturale della capitale bolscevica senza potervi davvero incidere. Le innovazioni della fotografia europea non la seducono. Lamenta, acquisita una Leica e abbandonata la sua fedelissima Graflex, che il formato del visore non corrisponde a quello dell’inquadratura stampata (il meccanismo le risulta perciò astratto). Ma soprattutto tende a sottoesporre: “questa dannata luce dopo il Messico”; lei, inoltre, come confessa in un appunto, ha perso “la forza della tenerezza”. Che il suo obiettivo non ritroverà più: pochissimi gli scatti dopo il ’29, anche in quell’ultimo, rocambolesco ritorno in Messico, dove, sans-papiers, morirà forse d’infarto in un tassì.

Non aveva funzionato, per “Tinissima”, la riconciliazione del ‘tempo ritrovato’. Non era il Messico ad attrarre il suo sguardo, ma quel Messico. Che teneva aperte una serie di possibilità esperibili sul campo, forse addirittura esaltanti. Dopo, è finito tutto. Il mondo si è richiuso e agli occhi di Tina ha perso d’interesse. Eppure le sue fotografie sono capaci di tenere i nostri ancora drammaticamente aperti.

[Foto in evidenza tratta da Facebook]

Community - Condividi gli articoli ed ottieni crediti
Articolo Precedente

Il genio di Mozart esplode (di nuovo) a Verona: al teatro Ristori l’eterno capolavoro “Don Giovanni”

next