Ci sono delle intercettazioni che, secondo la procura di Milano, indicherebbero che le due psicologhe del carcere di San Vittore, indagate nell’ambito dell’inchiesta su un presunto falso insieme a una avvocata, l’intenzione di far ottenere una perizia psichiatrica ad Alessia Pifferi, la donna che è accusato di aver lasciato morire di stenti la figlia per passare una settimana con il compagno. “Tutti mi dicono che quel giudice lì è un garantista (…) menomale, perché è lo stesso della Pifferi (…) almeno ha preso la cartella! (…) almeno le fa fare la perizia! (…) il perito dirà … non può dire che noi abbiamo sbagliato (…) adesso glielo rifà il test, ma da quaranta può andare a quarantacinque! Ma non può centodieci” diceva una delle psicologhe, secondo quanto riporta l’Ansa, in un colloquio con un’altra detenuta. Per il pm Francesco De Tommasi, come si legge in una memoria, la professionista manifestava così “il proprio compiacimento per essere riuscita, in collaborazione con la collega” a far “ottenere alla Pifferi una perizia psichiatrica” nel processo per l’omicidio della figlia Diana, “contro il parere del pm“.
L’ipotesi della procura – Per la professionista le conclusioni della perizia, spiega il pm, “non potranno essere molto diverse rispetto a quelle emerse all’esito del test di Wais”. Test effettuato dalle due psicologhe in carcere e che accertò un quoziente intellettivo di 40 per l’imputata, ossia di una bambina di 7 anni. E che è costato alle due professioniste e anche al legale di Pifferi l’accusa di falso ideologico. Il pm adombra anche il fatto che le due psicologhe possano aver agito “forse su suggerimento di qualcun altro” per creare quella “pezza giustificativa” che “consentisse di motivare nel processo una richiesta di perizia”, poi “disposta”. Le psicologhe, si legge ancora nella memoria, nelle intercettazioni si pongono “esplicitamente, direttamente e immotivatamente in contrapposizione con questo pm”, per “introdurre” risultati “favorevoli alla Pifferi” e con un “lavoro in un certo qual modo clandestino”. E falsificano, spiega ancora, “in maniera anche plateale” gli esiti “dei colloqui con la detenuta”.
In un colloquio intercettato, lo scorso novembre, con una detenuta la psicologa “suggerisce” a quest’ultima di assumere l’atteggiamento di “una partita a scacchi” rispetto “al processo a suo carico”, con riguardo ad un possibile patteggiamento in appello. Si comporta “da avvocato difensore e non da psicologa” e per darle consigli cita anche “ciò che le disse in un’occasione il boss mafioso Badalamenti“. Nella memoria il pm riporta, poi, tutta una serie di atti e relazioni per dimostrare la “piena capacità cognitiva” di Pifferi, tra cui anche la videoregistrazione dell’interrogatorio del luglio 2022. E vengono, dall’altro lato, riportate integralmente anche le relazioni delle psicologhe nelle quali scrivevano che il “sogno di vita perfetta” di Pifferi “potrebbe avere quindi oscurato la sua capacità nel prevedere le conseguenze pratiche del suo gesto”. E ancora: “È assolutamente credibile – scrivevano – quando dice che amava sua figlia e che non avrebbe voluto farle del male”.
Secondo il pm la professionista in questo “procedimento” e “in generale nell’ambito della propria attività professionale, ha ingaggiato una ‘battaglia contro l’Autorità Giudiziaria e con la società” che “conduce con i mezzi a propria disposizione”. Per il pm, che indaga anche sull’avvocato di Pifferi, Alessia Pontenani, “non è esagerato affermare” che la psicologa “‘sragioni, eppure si tratta di una persona a cui è affidato un compito delicatissimo, che può avere riflessi importanti anche sull’esito dei processi, specie di quelli per reati gravi”. Sempre per la Procura, in un’intercettazione ambientale di un colloquio con Lucia Finetti, a cui è stato inflitto l’ergastolo per aver ucciso il marito, “vi è un passaggio” in cui la professionista “può essere definita un’eversiva che nella vita avrebbe preferito essere artefice di una vera e propria ‘rivoluzione e che invece ha poi optato, sfruttando la propria posizione di potere, per una ‘rivolta’, contro lo Stato”, ossia “aiutando e favorendo dall’interno i detenuti”. Nel colloquio con Finetti diceva: “Siamo vittime di una società sbagliata (…) io credo che una goccia comunque scavi la roccia (…) sono nel centro del potere invece che fare la rivoluzione che mi sarebbe molto più piaciuto”. In più, il pm scrive che la donna cita “parole di Mao Tse Tung”, come “si fanno le battaglie che si vincono”. In lei, scrive ancora il pm, “convivono ragioni di tipo ideologico e pensieri antisociali”.
L’avvocata non rinuncia al mandato – Intanto l’avvocata Alessia Pontenani, che difende Alessia Pifferi, “non intende assolutamente” rinunciare all’incarico nel processo a carico della 38enne accusata di aver lasciato morire di stenti la figlia Diana come spiega il legale Corrado Limentani, che assiste Pontenani nell’inchiesta. Pontenani, chiarisce il difensore, “indagata in concorso con gli psicologi di San Vittore, per falso ideologico (non di favoreggiamento come prospettato da alcune testate) è assolutamente estranea alle accuse mossele, accuse che contesta fermamente”. Ciò che per la difesa “più sbalordisce è la tempistica delle indagini del pm. Il fatto che durante lo svolgimento di un dibattimento il pm svolga indagini parallele indagando non solo potenziali testimoni ma anche il difensore dell’imputato è un fatto raro e gravissimo”.
A processo in corso “l’imputato e i medici del carcere sono stati oggetto di intercettazioni ambientali e perquisizioni domiciliari“. Sono state “intercettate anche – afferma Limentani – comunicazioni telefoniche del difensore. Le regole del processo sono state stravolte: se il pm aveva dei dubbi sulla regolarità delle attestazione dei medici che garantivano assistenza psicologica in carcere alla detenuta doveva confutare le loro tesi nel dibattimento in corso davanti alla Corte di Assise anziché aprire un processo ‘parallelo'”. Appare evidente, prosegue, “che indagare potenziali testimoni e il difensore durante la celebrazione del processo anziché discutere nel contraddittorio davanti al giudice la fondatezza dell’ipotesi accusatoria ha come conseguenza quella di screditare l’attendibilità dei testimoni, intimorire i consulenti e periti che stanno lavorando sul caso e soprattutto indebolire il ruolo dell’avvocato fino a costringerlo a rinunciare all’incarico. Cosa che – conclude – l’avvocato Pontenani non intende assolutamente fare”.