Esce oggi un nuovo disco di inediti di Ivan Graziani, ed è una notizia che scalda il cuore. Si intitola “Per gli amici”, ed è targato Numero Uno, la stessa casa discografica del primo “vero” album di Ivan (“Ballata per quattro stagioni”). Otto brani che vedono la luce a trent’anni dall’ultima opera di Graziani. Ivan se n’è andato il Primo Gennaio 1997. Aveva appena 51 anni, e deve ancora essere riscoperto appieno.
Talento puro, chitarrista prodigioso, genio eclettico (anche disegnatore e pittore), Graziani è stato il primo a saper coniugare due mondi che nei troppo politicizzati anni Settanta non sembravano poter stare insieme: musica d’autore e rock. Se è esistito un capostipite di “cantautore rock” quello è stato Graziani, capace di capolavori a getto continuo soprattutto (ma non solo) a cavallo tra Settanta e Ottanta. Atipico, rivoluzionario, irripetibile. Graziani andrebbe studiato a scuola, per i testi cinematografici in piano sequenza e per le musiche così poco arci-italiane e così tanto anglosassoni (e dunque universali). Chissà che, grazie a questo disco, si dia finalmente piena dignità autoriale a un artista amato dal pubblico, ma troppo spesso incompreso da giornalisti imbecilli e colpevolmente ottusi.
Se il nuovo album è giunto sino a noi, è merito della moglie Anna Bischi – donna di rara bellezza e dolcezza – e dei figli Tommaso e Filippo. Entrambi musicisti: il primo batterista di lungo corso, poco avvezzo alle luci della ribalta, professionale e solidissimo. Il secondo chitarrista e cantante di indubbie doti, Premio Tenco Opera Prima nel 2014, da anni in tour con progetti dedicati al padre. E’ lui a parlare dell’album. “Gli otto brani, presumibilmente, appartengono agli anni 1987-1991”. Il periodo in cui Graziani creò uno studio di registrazione in casa sua (le “Officine Pan Idler”) per avere ancora meno tra le palle i discografici. “Sapevamo che, da qualche parte, quei brani esistevano. Il modus operandi di mio padre era particolare: prima di andare in studio registrava dei “provinacci” su audiocassette. A casa abbiamo quintali di TDK con voce e chitarra. Le teniamo sotto vuoto dentro delle valigie, per non rovinarle. Ci siamo sentiti come i goonies alla ricerca del veliero. I brani li ha scovati mio fratello Tommy. Poi ha comprato su eBay la strumentazione per il riversamento dal formato Adat a digitale. E’ accaduto prima del Covid. E a quel punto, senza fretta, sono intervenuto io”.
Filippo ha lavorato con rispetto sacrale. “Le registrazioni erano ottime, ma fatalmente incomplete. Ho dato le batterie a Tommy, i bassi ai miei musicisti. Ed io ho dato “ciccia” a voce e chitarre. Sfruttando la nostra similarità, in alcuni brani ho aggiunto la mia voce a quella di papà per riempire la mancanza di frequenze (derivante dai microfoni dell’epoca). Sono stato una sorta di Intelligenza Artificiale del disco, e se non l’avessi raccontato non se ne sarebbe accorto nessuno”. C’era già quasi tutto nei brani, arrangiamenti compresi. “Il vestito c’era già: io ho solo finito di cucirlo. L’unica canzone su cui sono intervenuto molto è Una donna: lì avevamo solo voce e tastiere, però era un pezzo così tanto “alla papà” che non ho voluto lasciarlo lì. L’ho trasformato in un tributo al glam rock anni Settanta che gli era tanto caro, stile T-Rex”.
Il figlio è raggiante. “Tante volte mi sono detto: avrei 200mila idee su come produrre i nuovi dischi di papà. Ecco: questa è stata la mia possibilità di entrare realmente in studio con lui. Mi sono ricordato di quando lavorava con i musicisti (Filippo aveva 15 anni quando papà è mancato, nda) e mi sono messo in studio. Ogni scelta è nata dal bagaglio della memoria, come se fosse lui ad arrangiarsi da solo”. Nel disco, di pregevolissima fattura, manca solo una cosa: “Un pezzettino in cui suono la batteria con lui. Adoravo andare a rompergli le scatole. Avrò avuto 8-9 anni, e nel provino si sente mio padre che fa un rock ‘n’ roll alle tastiere. Io provo a stargli dietro, ma non ci riesco. E lui mi dice: “E’ dura, eh?”. Voleva ricordarmi quanto il suo lavoro fosse “serio”. E’ una registrazione molto bella. Così bella che l’ho tenuta tutta per me”. Filippo Graziani – che ora partirà con un tour per presentare il disco – ha molti ricordi. Ne sceglie uno. “Sul finire degli Ottanta, mi portarono a vedere un suo concerto. Si esibiva in una di quelle feste popolari in piazza. Ricordo bene una sua canzone, perché c’erano le parolacce. E a me piaceva da matti che mio papà le dicesse al microfono: “Prudenza mai, mai/ Mai, neanche da bambino/ Quando alzavo le gonne/ Alla suora dell’asilo/ E poi scrivevo sul muro, “Io ce l’ho più duro”/ Facevo poi il disegnino/ Un cazzettino”. Ecco, mio padre era così: prudenza mai”. Per fortuna.