di Monica Valendino

Il razzismo esiste e sorprende che lo si scopra in uno stadio, nella fattispecie quello di Udine, dove una manciata di tifosi si è scatenata per provocare il portiere del Milan, Mike Maignan. Sorprende che il polverone che si è alzato coinvolga un impianto e una città (Udine) da sempre considerati esempio. Sorprende che la punizione inflitta (squalifica dello stadio per una giornata) sia di gran lunga superiore a fatti analoghi successi in piazze più blasonate.

Ma quello che sorprende di più è l’ipocrisia che regna attorno al calcio e a questi censurabili avvenimenti. Chi ha una certa età e frequenta i campi di pallone da sempre, anche quelli impolverati e periferici, sa che insultare l’avversario è prassi. Con i criteri di oggi poche partite di quando indossavamo gli scarpini sarebbero arrivate al decimo del primo tempo, e non solo nei campi periferici ma a tutti i livelli dove insulti razzisti, sessisti o omofobi, oltre a una serie di rosari che implicavano tutti i santi e oltre, erano la norma. Eppure, quel pubblico così pittoresco era composto da persone non solo laboriose, ma anche generose finita la partita; persone in fondo molto migliori di chi oggi punta l’indice la domenica e si volta dall’altra parte nel resto della settimana.

Le parole di alcuni tifosi esagitati ci appaiono più riprovevoli delle bombe che riducono a pezzi dei bambini in Palestina con molti israeliani che non disprezzerebbero l’idea di Bibi Netanyahu di costruire un’isola artificiale dove rinchiudere gli sgraditi ospiti, natii peraltro di quella terra. Innalziamo al ruolo di vittima un calciatore milionario, mentre rimaniamo indifferenti di fronte alla stragi che si consumano sotto i nostri occhi o alla volontà del Governo di creare una Guantanamo de noantri in Albania dove spedire gli immigrati di turno, un po’ come mettere la polvere sotto il tappeto.

Il razzismo, ipocritamente scacciato dalla porta principale, rientra dalla finestra nelle sue forme più ciniche e brutali. Un generale dell’Esercito può scrivere un libro discusso e apprezzato da molti a quanto pare (tanto che c’è chi lo vuole candidare a Bruxelles) dove scrive liberamente che “Anche se Paola Egonu è italiana di cittadinanza, è evidente che i suoi tratti somatici non rappresentano l’italianità che si può invece scorgere in tutti gli affreschi, i quadri e le statue che dagli etruschi sono giunti ai giorni nostri; anche se vi sono portatori di passaporto italiano che pregano nelle moschee, ciò non cancella 2.000 anni di cristianità”. Oppure cita vissuti personali raccontando che “Quando con tutta la famiglia ci trasferimmo a Parigi per la prima volta, cominciai a venire a contatto quotidianamente con persone di colore. Mi ricordo nitidamente quanto suscitassero la mia curiosità tanto che, nel metrò, fingevo di perdere l’equilibrio per poggiare accidentalmente la mia mano sopra la loro, mentre si reggevano al tientibene dei vagoni, per capire se la loro pelle fosse al tatto più o meno dura e rugosa della nostra”.

Ma l’ipocrisia è ben più larga: la società che oggi si indigna per un insulto in uno stadio spesso dimentica le discriminazioni quotidiane sui posti di lavoro e non solo subite da persone transessuali, omosessuali o semplicemente “diverse” da quella che le destre attuali vorrebbero chiamare “tradizionali”, persone che non è raro arrivino perfino a togliersi la vita per l’insopportabile peso della situazione.

Ipocritamente ci voltiamo dall’altra parte se il sindaco di Monfalcone (sempre in Friuli) per la sua battaglia per la dignità e il decoro, così come l’ha definita, vieta il bagno in mare alle donne musulmane se stanno vestite e proibisce i luoghi di culto islamici.

Forse il problema, quindi, è ben più ampio di qualche coro in uno stadio, in un calcio dove si punisce questo ma si va a giocare in Arabia Saudita dove i neri d’Africa vengono sfruttati e i diritti umani calpestati.

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