Invecchiare – scriveva James Hillman – non è un mero processo fisiologico: è una forma d’arte, e solo coltivandola potremo fare della nostra vecchiaia una ‘struttura estetica’ possente e memorabile, e incarnare il ruolo archetipico dell’avo, custode della memoria e tramite della forza del passato.
Queste parole potrebbero accompagnare un libretto che si intitola Storie private in pubblico giardino. L’ha scritto e pubblicato, soprattutto per gli amici, una signora milanese che ha compiuto 90 anni e che si chiama Lucia Mosca. Dopo una vita di successi – ha studiato a Londra il lavoro di copywriter e lo ha ‘importato’ in Italia quando era sconosciuto anche alle grandi agenzie – Lucia ha speso la passione per la scrittura tenendo una specie di diario dei giardini milanesi in cui ha registrato impressioni, stati d’animo, e ricordi lungo un arco di tempo che vanno dal 1934 al 2024.
Memorabile la ‘recensione’ del monumento a Montanelli in Via Manin: “Bello scherzo gli hanno fatto i suoi amici! – scrive – sta lì tutto vestito d’oro in un recintino freddo con una tomba di famiglia. Si può anche non essere del tutto d’accordo con il contenuto dei suoi scritti, ma il suo approccio giornalismo non era certo imbalsamato. Il massimo della comicità si raggiunge con la neve in testa, ma anche in agosto, con la giacca abbottonata, ispira solidarietà. In ogni caso vero protagonista di questo ironico cenotafio è la ‘Lettera 22’, gloriosa arma di scrittura”.
Un passaggio rievoca le mutazioni sconcertanti imposte ai giardini dall’autarchia con cui Benito Mussolini cercò di rispondere alle sanzioni internazionali seguite all’invasione dell’Etiopia: “C’era la guerra. I papà erano a militare e le mamme guidavano i tram. Il pane era poco, nero e si riceveva solo con la tessera. Ma per far vedere che non avevamo bisogno di niente, ai Giardini hanno fatto la battaglia del grano. Niente più erba e fiori, tutti i prati erano seminati a grano, e quando è stato il momento della mietitura è arrivata persino alla trebbiatrice e con il grano si facevano i fasci. Così anche noi aiutavamo la patria e l’autarchia e saremmo stati i vincitori…”.
Storie private in pubblico giardino è una guida per scoprire i lati più surreali della città e delle sue – direbbe Formigoni – ‘eccellenze”: “Anche se fuori è una bella giornata l’allegria si gela subito appena si entra nel Museo di Storia Naturale. Si fatica a capire cos’abbia che fare con la natura questo impressionante mausoleo di marmo che custodisce centinaia di mummie di animali ex vivi. Ma nemmeno naturalmente morti. Colpiti all’improvviso nell’attimo scelto dal demiurgo imbalsamatore che ha deciso di mostrarli così, una volta per sempre. E’ vero, si faceva anche con i Faraoni, ma almeno si imbrogliavano un po’ le carte con ori e pitture. E nemmeno vale il paragone con il museo Madame Tussauds, perché lì lo sai che in queste similpersone non c’è nemmeno un brano del loro essere corporeo. L’unica cosa vera è lo scheletro della balena: nella sua nuda essenzialità rivela la potenza del progetto che la sostiene”.
Le pagine del diario urbano di Lucia sono una serie di istantanee. A prima vista appaiono come una rilettura spiritosa e brillante di alcuni scorci di Milano, ma in realtà ogni “quadro” esprime un atto d’amore, direi quasi di gratitudine, per la vita, per il semplice fatto di essere al mondo, un po’ come la foto che lo spazzino Hirayama, il protagonista dell’ultimo film di Wenders Perfect Days, scatta ogni giorno, allo stesso albero nello stesso parco.
Un sentimento che emerge chiarissimo dall’ultima nota del libretto, intitolata “morire vivendo”: “Adesso si chiama la quercia di Montale. Non dubito che Montale abbia apprezzato questo albero così maestoso. Ma quando l’ha conosciuta lui era già vecchietta, visto che ha circa trecento. Tanti per una creatura mortale. Rispettata, amata, curata, ma anche lei doveva separarsi dalla vita. Forse sarebbe diventata anche pericolosa… Abbatterla? Paola Pastacaldi, giornalista e scrittrice, ha voluto accompagnare la sua morte, lasciando che la natura facesse il suo corso lì dove era nata. In accordo con l’ufficio Area verde, Agricoltura e Arredo urbano del Comune di Milano, ha provveduto perché fossero messe in atto tutte le necessarie misure di sicurezza e a permesso che morisse in pace, seguendo i suoi tempi naturali. Non c’è stato un momento triste nel suo declino. Nel perdere rami e fronde ha rivelato la potenza della sua struttura. Nella nudità del tronco ha trovato sfumature preziose. Le fessure non sono ferite ma rivelazioni. La parte residua del tronco è una scultura senza tempo. Poi si è scoperta di muffe, come una pelliccia. E poi i funghi decorano il legno come gioielli. Sono tornata a trovarla dopo il tornado che ha ferito anche i giardini e l’ho trovata allegra e festosa, circondata da un futuro boschetto di giovani virgulti.”