“V’è da chiedersi se la legittimazione del magistrato non trovi più ragione, o almeno non solo e non tanto, nella sua sottoposizione alla legge“, ma piuttosto “nel suo rapporto con i cittadini fondato sulla fiducia“. In altre parole: giudici e pm non devono solo attenersi a quanto è scritto nelle norme, ma agire in modo ottenere il gradimento della popolazione, o almeno della maggioranza di essa. Perché la funzione giudiziaria sia legittimata, infatti, non basta la sua “attribuzione formale”, ma serve che sia esercitata in modo da rispondere “alle aspettative collettive“. A pronunciare queste parole, paradossalmente, è il capo dell’istituzione che dovrebbe garantire l’autonomia e l’indipendenza delle toghe: Fabio Pinelli, vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura. Nel suo discorso all’inaugurazione dell’anno giudiziario in Cassazione, l’avvocato scelto dalla Lega – finito nella bufera già nei giorni scorsi per il suo attacco indiretto al capo dello Stato – invoca una revisione dei principi dello Stato di diritto: auspica infatti il “superamento del principio della sottoposizione del giudice solo alla legge” (titolo, questo, del secondo paragrafo del suo intervento). Proprio la legge, afferma, “nel tempo presente non sembra essere più in grado di porsi in sé come la fonte unica di legittimazione” del ruolo dei magistrati: ci vuole anche la “fiducia dei cittadini“, da conquistare attraverso “i comportamenti” tenuti “dentro e fuori l’esercizio della funzione”.
Al di là dei giri di parole, quello di Pinelli sembra un assist alla crociata intrapresa dal governo Meloni, e in particolare dal ministro della Giustizia Carlo Nordio, contro i magistrati critici verso le riforme in cantiere, e ancora di più contro quelli che adottano decisioni sgradite nei confronti di esponenti della maggioranza: la gip di Roma che ha disposto l’imputazione coatta (e poi rinviato a giudizio) il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, la giudice di Catania che ha disapplicato il trattenimento automatico dei migranti previsto dal dl Cutro, i pm che indagano sulle società di Daniela Santanché o sul figlio di Ignazio La Russa. Il vicepresidente del Csm sembra suggerire che, per fare bene il proprio lavoro, giudici e pm debbano evitare di esporsi politicamente, e possibilmente sintonizzarsi con il pensiero della maggioranza dell’elettorato: “La non configurabilità di un giudice sottoposto ad altro potere”, argomenta, “non determina – per ciò solo – che il giudice trovi la propria legittimazione esclusivamente nella legge e, soprattutto, che in ciò possa ritenersi appagato. Il magistrato, in effetti, trova il proprio riconoscimento giuridico e sociale nella modalità con cui esercita la propria funzione e, conseguentemente, nel rapporto di fiducia che si instaura con i cittadini”.
E qui arriva la stilettata: “Questo rapporto di fiducia nasce dal rigore con il quale il magistrato esercita la funzione. I comportamenti di ciascun magistrato sono dunque decisivi, dentro e fuori l’esercizio della funzione. E i comportamenti dell’un magistrato incidono sul riconoscimento sociale dell’altro magistrato”. Un discorso che è facile ricondurre alla polemica sulla giudice di Catania Iolanda Apostolico, “colpevole” di aver partecipato a una manifestazione pro-migranti cinque anni prima di disapplicare il decreto Cutro sull’immigrazione per contrarietà al diritto Ue. Ma anche alle numerose prese di posizione dell’Associazione nazionale magistrati, accusata di “interferenze” da Nordio, che è arrivato a negare al sindacato delle toghe la dignità di interlocutore istituzionale. Fino all’offensiva più clamorosa, quella del ministro della Difesa Guido Crosetto, che ha suggerito l’esistenza di presunti complotti per rovesciare il governo per via giudiziaria, salvo poi ritrattare ma parlare comunque di “tendenze preoccupanti” da parte di giudici e pm.