Il 91enne editore catanese Mario Ciancio Sanfilippo è stato assolto dal tribunale di Catania dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa “perché il fatto non sussiste”. Una lunga e complessa vicenda giudiziaria, costellata da passaggi tra gip e gup, richieste di archiviazioni, decreti di rinvio a giudizio, un primo proscioglimento, i ricorsi e un secondo rinvio a giudizio. In mezzo il sequestro di 150 milioni di euro di beni poi annullato dalla Cassazione. Oltre 60 faldoni e 27 udienze per far luce sui presunti rapporti tra il plenipotenziario editore ed esponenti di spicco della famiglia mafiosa Ercolano-Santapaola.

“Persona di grande spicco” – “Dopo tanti anni di processo possiamo dire che la verità ha trionfato. Il tribunale ha messo la parola fine a una brutta vicenda nella quale, certamente, una persona di grande spicco e di grande rilevanza a Catania è stata coinvolta”, ha commentato il legale di Ciancio, Carmelo Peluso. Resta il fatto che il processo ha permesso di far luce sui rapporti che l’eminenza grigia catanese avrebbe avuto con ambienti mafiosi, politici e imprenditori, e sulla sua galassia societaria che spazia dall’editoria alla pubblicità, passando per l’edilizia e la realizzazione di centri commerciali. La scalata è inizia nel 1976 quando eredita dallo zio Domenico Sanfilippo il quotidiano La Sicilia, poi la nascita delle tv locali Antenna Sicilia e Telecolor e l’acquisizione di quote di emittenti radio e quotidiani locali, come il Giornale di Sicilia, Gazzetta del Sud e La Gazzetta del Mezzogiorno, fino a quelli nazionali.
La presidenza della Federazione italiana editori giornali (Fieg) tra il 1996 e il 2001, e per un periodo la vicepresidente dell’Ansa. Quando nel 2018 il tribunale delle misure di prevenzione di Catania gli sequestra i beni, mette i sigilli a 31 aziende più altre 7 partecipate, conti correnti, anche in Svizzera, e beni immobili, per un valore complessivo di circa 150 milioni di euro.

Stampa e censure – I magistrati Antonino Fanara, oggi alla Procura Nazionale Antimafia, e Agata Santonocito, attuale facente funzioni della procura etnea, avevano chiesto la condanna a 12 anni, ritenendo che già dagli anni 70 Ciancio avesse intrattenuto “rapporti sinallagmatici” con gli esponenti della mafia etnea che faceva capo al boss Giuseppe Calderone, detto ‘cannarozzu d’argento’ e già componente della commissione regionale di cosa nostra. E in seguito con Benedetto ‘Nitto’ Santapaola, legato al rinnovamento dei corleonesi. Tra gli episodi che la Dda di Catania ha contestato a Ciancio c’è la mancata pubblicazione su La Sicilia del necrologio di Beppe Montana, il commissario di polizia ucciso dalla mafia a Palermo il 25 luglio 1985, la lettera di Enzo Ercolano, nipote di Santapaola, uscita dal 41bis e pubblicata su La Sicilia. Ma anche la visita di Giuseppe Ercolano, cognato di Santapaola, alla redazione de La Sicilia per chiedere spiegazioni al cronista che lo aveva etichettato come “mafioso”.

Così parlarono i pentiti – In aula sono stati chiamati numerosi collaboratori di giustizia, a partire da Francesco Di Carlo, boss di Altofonte e già figura di spicco del mandamento di San Giuseppe Jato, che ha definito Ciancio “un prezzo grosso” con “le mani in pasta come Vito Ciancimino”. Giuseppe Catalano, un tempo uomo del clan Laudani, ha parlato del furto del marzo 1993 nella casa dell’editore e l’intervento diretto di Aldo Ercolano, nipote prediletto di Santapaola, che avrebbe detto: “Ciancio non si doveva toccare più”. Facendo restituite la refurtiva.
“Mario Ciancio è n’amicu, ci si po parrari (un amico, si ci può parlare, ndr)”, aveva detto invece Giuseppe Ferrone, uomo del boss Antonino Calderone e killer di Carmela Minniti, moglie del Santapaola. Altri elementi sono stati raccontati da ‘u verru’ Giovanni Brusca, il boss stragista della famiglia di San Giuseppe Jato, e gli ex componenti della famiglia Santapaola: Francesco Squillaci, Santo La Causa, Gaetano d’Aquino e Maurizio Avola.

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