In una circolare del Ministero dell’Istruzione (Ufficio Scolastico regionale per il Lazio) sulla Giornata della Memoria, nel ricordare le vittime dell’orrore nazista vengono dimenticate le persone omosessuali che non figurano nel triste appello insieme a “Ebrei, diversamente abili, Rom e Sinti, oppositori politici e testimoni di Geova”. Potrebbe avere perfino del comico – che cioè nel giorno della memoria ci si dimentichi di qualcuno – se non fosse grave il fatto che tale smemoratezza equivale a essere cancellati dalla Storia.
“Ci troviamo di fronte all’ennesimo atto ostile del governo Meloni contro la comunità LGBTQIA+ – spiega Mario Colamarino, presidente del Circolo di cultura omosessuale Mario Mieli di Roma – ed è una vergogna che veniamo discriminati istituzionalmente da chi invece dovrebbe ricordare tutte le vittime del nazifascismo. Ricordare la storia è fondamentale per fare in modo che le tragedie del passato non si ripetano. Senza discriminazioni, però, o fenomeni di memoria selettiva”.
In effetti, l’Omocausto – così è chiamata la persecuzione e lo sterminio delle persone omosessuali durante il nazifascismo – è un fatto storico acclarato da numeri e documenti. Non a caso, per grado di mortalità, la comunità rainbow fu seconda soltanto a quella degli Ebrei. Il lager di Schirmeck-Vorbruk nell’Alsazia tedesca era specializzato in prigionieri gay. Quasi centomila vi furono internati, dopo essere stati rastrellati in tutta Europa. E a morirci dentro furono quasi i tre quarti di loro. Come racconta il memoir “Io, Pierre Seel, deportato omosessuale” (1982), chiamati a raccolta nelle stazioni di polizia più vicine, gli omosessuali venivano picchiati e incarcerati. A chi osava opporre resistenza, gli uomini delle SS riservavano le peggiori torture: gli venivano strappate le unghie, erano sodomizzati con dei bastoni e infine condotti nei campi. Qui, i triangoli rosa (così erano chiamati gli omosessuali deportati dal triangolo di stoffa rosa rovesciato cucito sulle loro tute) furono sottoposti alle peggiori sevizie: ogni mattino, alcuni scelti a caso erano offerti come pasto a cani lupo. Ma anche a sperimentazioni scientifiche. Desiderosi di isolare il gene dell’omosessualità – in modo da poter “costruire” bambini ariani che ne fossero esenti – gli stessi medici che portavano avanti il protocollo di eugenia nazista ai danni delle persone disabili, usarono gli omosessuali come cavie. Carl Vaernet, medico al campo di Buchenwald, volendo “curare” l’omosessualità, aveva perfezionato un preparato a base di testosterone che distribuiva quotidianamente ai deportati, uccidendone l’80%.
Anche le donne lesbiche, definite asociali e il cui triangolo cucito era nero, furono vittime di deportazione, quando non venivano rinchiuse negli ospedali psichiatrici. I campi dedicati a esse erano quello di Ravensbruck, Hohenstein e Flossenbürg, dove subirono torture ed esecuzioni sommarie. Soprattutto, però, vittime di una sterilizzazione di massa, quando non esposte al sadismo e alle perversioni dei gerarchi.
Il codice penale italiano fascista, invece, come raccontano Tommaso Giartosio e Gianfranco Goretti ne “La città e l’isola. Omosessuali al confino nell’Italia fascista” (Donzelli), non previde mai la penalizzazione dell’omosessualità, ma dava alle forze dell’ordine il provvedimento del confino, cioè la residenza coatta in un luogo lontano da quello in cui la persona viveva, con limitazioni della libertà personale. Bastava una diceria per far scattare una denuncia al Questore. E senza che l’indagato ne sapesse nulla, si ritrovava accusato di “comportamento contrario alle disposizioni del regime sull’educazione dei giovani”, “attentato alla morale e all’integrità della razza” o di “delitti contro la razza”. Migliaia di omosessuali furono spediti al confino in isole sperdute, come Ustica e le Tremiti, o condannati al lavoro forzato nelle miniere di Carbonia, in Sardegna.
“Tutto questo non si può scordare – riprende Colamarino – perciò domani 27 gennaio alle 17,30 saremo in Piazza dell’Esquilino per gli stermini dimenticati”. Del resto, la memoria è tutto, lo ha ripetuto per tutta la sua lunga vita, Lucy Salani (1924-2023), attivista per i diritti civili, nota soprattutto per essere stata l’unica persona transgender italiana sopravvissuta alla deportazione nei lager.