Gli attacchi sferrati da Stati Uniti e Gran Bretagna contro lo Yemen non paiono per ora aver avuto alcun effetto apprezzabile sulla crisi del commercio nel mar Rosso. Anzi, secondo diversi osservatori, con i bombardamenti la situazione è peggiorata. I carichi americani non trovano più assicuratori. Lo stretto di Bab al Mandab che collega Oceano Indiano e mar Rosso (e quindi il transito dal canale di Suez a Nord) è sotto scacco per effetto degli attacchi delle milizie yemenite Houthi che prendono di mira soprattutto le navi che hanno qualche legame con Israele, come ritorsione per i bombardamenti su Gaza. Venerdì sera un’altra nave mercantile in transito nel golfo di Aden è stata colpita da un missile. L’impatto ha provocato un incendio ma l’equipaggio è stato tratto in salvo. Gli Houthi hanno poi rivendicato un attacco contro la “petroliera britannica Marlin Luanda”, precisando che la nave, “colpita frontalmente, ha preso fuoco”. La nave trasportava un carico del colosso del trading di materie prime Trafigura. A quanto pare si tratta di petrolio russo.

Le milizie nelle scorse settimane hanno precisato che non intendono colpire navi legate a Cina e Russia, entrambi paesi che appoggiano l’Iran, stato di riferimento per le milizie yemenite. Di questo stato di cose c’è chi inizia ad approfittare. Il Financial Times dà conto di alcuni armatori cinesi minori che stanno sfruttando la loro nazionalità, che garantirebbe una sorta di salvacondotto, per potenziare i loro collegamenti via mar Rosso e attrarre così nuova clientela. Tra queste Transfar Shipping e China United Lines. La “cinesità” viene messa ben in chiaro e comunicata con i messaggi di identificazione, così come lo è la mancanza di legami con Israele.

Va detto che il colosso cinese Cosco nelle scorse settimane ha invece preferito evitare le rotte più a rischio, allineandosi a quanto deciso da concorrenti europei come Harag Lloyd, Maersk o Msc. Tutti gli armatori stanno comunque beneficiando, in forma di maggiori ricavi e corsa dei titoli per le quotate, dell’aumento generalizzato dei costi del trasporti. Secondo i dati di Drewry Shipping Consultants, i costi medi mondiali per la spedizione di un container sono aumentati del 23% nella settimana fino al 18 gennaio, arrivando a 3.777 dollari, più che raddoppiando nell’ultimo mese. Giova puntualizzare che i carichi arrivano tanto quanto prima, soltanto impiegano più tempo. Facile intuire come su un i-phone da oltre mille euro la ricaduta sul costo finale sia trascurabile. Meno per altri tipi di prodotti. Gli effetti si fanno sentire soprattutto in Europa, e in Italia in particolare, visto che la “chiusura” di Suez dirotta verso altri scali navi destinate ai porti della penisola. Naturalmente l’impatto è meno forte sugli Stati Uniti ma non del tutto assente: anche una quota del traffico verso l’America transita dal Mediterraneo via Suez. La crisi inizia a ritardare anche le consegne di gas liqueafatto in arrivo dal Qatar, divenuto importante per l’Italia dopo la riduzione dei flussi dalla Russia.

“Nei porti di Genova abbiamo subito ritardi nell’arrivo delle navi ma non abbiamo ancora avuto alcuna disdetta”, spiega comunque il commissario straordinario dell’Autorità di sistema portuale del Mar ligure occidentale (Genova, Savona e Vado ligure) Paolo Piacenza. “L’impatto per i nostri terminal genovesi si traduce in un cambio operativo sulle date di arrivo nave. Il numero delle unità in arrivo è lo stesso, ma la data di arrivo in porto delle navi è cambiata a fronte del nuovo itinerario: con dieci o quindici giorni di navigazione in più arrivano fuori dalle finestre concordate”, spiega Roberto Ferrari, amministratore delegato di Psa Italy che a Genova gestisce Psa Genova Prà e Psa Sech.

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