di Michele Canalini
È ripreso l’anno scolastico, ma i problemi della scuola permangono in tutta la loro gravità. Infatti, come ha riportato lo studio del dossier “Analisi longitudinale della dispersione” dell’ufficio statistica del ministero dell’Istruzione su una generazione presa sotto esame per un decennio scolastico (dal 2012/2013 al 2021/2022), è emerso un dato di dispersione di circa 96mila abbandoni su 583mila iscritti, quindi il 16,5 per cento dei ragazzi in totale. Questo significa che uno su sei degli allievi in Italia abbandona gli studi.
Io credo che, al di là di tante iniziative e proposte, la scuola prima di tutto debba essere formativa e inclusiva, e soprattutto capace di valorizzare (capace dunque di incoraggiare anche i ragazzi con minor disponibilità economica e scarsi stimoli culturali) piuttosto che selettiva, senza estromettere necessariamente i più fragili. Che senso ha portare avanti ancora una selezione, cieca e sterile, che lascia per strada ogni anno circa centomila ragazzi?
A questo si aggiunge una tara della nostra istruzione che ha origini antiche ma resta radicata nel tessuto della nostra principale agenzia formativa: il classismo. Nessun governo se n’è mai occupato concretamente. Anzi, la persistenza delle diseguaglianze a scuola non solo non si è attenuata ma s’è rafforzata con il processo di gentrificazione di molte aree delle nostre città. Ciò ha determinato un’ulteriore disparità in termini di ritorni sociali e di proiezioni occupazionali dei giovani che ha come risultato la suddivisione delle nostre scuole in istituti di serie A e istituti di serie B. Fuori da questo schema binario, restano invece i dispersi del nostro sistema di istruzione che alimentano quella “generazione della scarto” da cui ha preso le mosse la mia riflessione.