Cultura

Don Giovanni ha un piede nella fossa? Anche a teatro arriva Taffo. Al Ristori di Verona l’opera di Mozart è un successo (costruito tutto da “under”)

di Diego Pretini

Il morto che parla – quando non sgancia qualche numero da giocare al lotto – è un archetipo delle paure umane perché si regge sul più indicibile mistero, tale almeno per i vivi. L’arte è piena di storie che camminano sul “vago confine tra la vita e la morte” (Edgar Allan Poe), da Dante che si reca direttamente in loco a scuriosare a Tim Burton e ai suoi spiritelli, porcelli e non. L’unico a cui può venire in mente di invitare a cena il poltergeist è Don Giovanni, che d’altra parte è un signore che come sanno quasi tutti agisce senza curarsi di obblighi morali, regole, scrupoli: potrebbe trovarsi a suo agio nell’intrapresa di una carriera politica e infatti Wolfgang Amadeus Mozart e Lorenzo Da Ponte ci hanno costruito sopra un capolavoro, quintessenza dell’opera lirica. “Don Giovanni, a cenar teco m’invitasti e son venuto” si presenta sull’uscio il Commendatore. Sembra garbo ma non è: nel finale dell’opera il Cumenda è tornato dall’aldilà per far redimere – povero illuso – Don Giovanni, cioè colui che all’inizio della storia l’ha ammazzato. Da libretto è il “convitato di pietra”, primo, originale, imitatissimo: una statua in memoria del defunto che prende a parlare e alla fine del Settecento avrà fatto il suo effetto spaventevole. Nella lettura della regia di Gianmaria Aliverta (in scena fino a stasera al teatro Ristori per il festival Mozart a Verona) il morto appare anche più morto: viene fuori direttamente dalla bara e così – grattando via l’alone un po’ magico che può dare un pezzo di marmo che parla – si sovrappone con più forza all’immaginario del pubblico di oggi.

Il Commendatore, dunque, dentro il feretro si muove come vivo, si leva seduto, si toglie di dosso il velo con cui era stato coperto, si alza in piedi, comincia a camminare, anche se comprensibilmente basculante come un ciclista imballato dall’acido lattico, un po’ vampiro e un po’ zombie, morto eppure semovente, deambulante nonostante la (giustificabile) pessima cera. Tradizionalisti, puristi, difensori del Verbo, fanatici delle antichità possono sotterrare subito l’ascia: Aliverta segue la drammaturgia al millimetro. La forma è semi-scenica: se da una parte gli attori recitano e cantano in platea e su qualche palchetto (l’orchestra è sul palco, alle loro spalle), tra i pochi elementi scenografici che compaiono sul palco del Ristori ecco due bare che segnano il debutto in un’opera lirica di Taffo (quella Taffo), e se non fosse pubblicità si potrebbe dire che almeno il crash-test col peso di un massiccio Commendatore in piedi sulla cassa da morto è stato superato. Anche quello del tavolino da campeggio, alla bisogna: la cena organizzata a casa di Don Giovanni è apparecchiata proprio sopra al coperchio di un feretro. L’unico inconveniente, nel caso, è che magari a qualcuno toccherà mangiare con una mano sola perché l’altra è impegnata in gesti apotropaici.

Il successo della produzione del Ristori è stato costruito da regista, direttore, compagnia, artisti, orchestra che sono giovani se non giovanissimi: il consueto sms per chi considera la lirica sull’orlo della tomba, tanto per rimanere in tema. Aliverta, insieme alla costumista Sara Marcucci, compie un’operazione di “avvicinamento” dell’immortale opera di Mozart in un paesaggio più familiare. Don Giovanni si aggira con una grossa divisa da ufficiale, Leporello – il suo servo, quindi sottoposto – indossa una di quelle tute intere con cerniera da meccanici dell’aeronautica, Donna Elvira fa il suo ingresso in scena con occhiali da sole e trolley. Madamina, il catalogo è questo: sul palco compaiono pile di scatoloni che hanno l’apparenza di schedari usciti dagli archivi di qualche caserma e dentro ci sono tutti i documenti classificati da Leporello sulle sedotte e abbandonate dal suo padrone, con tanto di foto in posa delle disgraziate. E ancora: nella scena iniziale – che precede quella in cui il Commendatore viene accoppato – la coppia di promessi sposi borghesotti e al di sopra di ogni sospetto formata da Donna Anna e Don Ottavio in realtà non disdegna il ménage à trois con tanto di domati e dominanti. Un’intuizione registica che sembra rimarcare una volta di più il confronto tra Don Giovanni e Ottavio: il primo un concentrato di volontà allo stato puro, prende ciò che gli pare, è uomo d’azione, pensa ed è cosa fatta, laddove il secondo promette a lungo fuoco e fiamme alla compagna, le assicura che otterrà vendetta per l’assassinio del padre (il Commendatore) ma alla fine il risultato è zero a zero. Da qui chi legge può capire perché Don Giovanni si imbarca volentieri nell’opzione della cosa a tre e perché ne esce vincitore.

Il Don Giovanni secondo la regia di Aliverta sembra indugiare sui caratteri più distintivi di Don Giovanni e Leporello. Il protagonista (Lodovico Filippo Ravizza, vigoroso in voce e recitazione) è più superficiale e viziato che non sulfureo: il sottotitolo lo definisce “dissoluto”, no? Prende ciò che vuole, morde e se ne va, fa le bizze quando non ottiene, scappa quando c’è un problema. Là ci darem la mano è o non è un mezzuccio bieco per concludere alla svelta con la contadina Zerlina? E dall’altra parte il registro del suo servo (uno spumeggiante Marco Filippo Romano) sottolinea il tono buffo e il risvolto comico da “anti-eroe”. Don Giovanni non fa un plissé quando il morto gli parla dalla bara, mentre Leporello scompare e striscia a terra polverizzato dal terrore.

A raccogliere i favori del pubblico del Ristori è in particolare Valentina Mastrangelo che ha il merito di incarnare la disperazione febbrile, lo smarrimento e la serenità del tutto effimera che contraddistinguono via via Donna Elvira, una figura molto riconoscibile anche negli amori dei tempi che viviamo, fatti di chat, tinder e ghosting. Donna Elvira è un totem a chi affoga in una relazione che sa essere tossica eppure resta scisso in modo irrisolvibile tra la furia nei confronti dell’amato e il sentimento che la porta perfino ad avere pietà di un simile mascalzone. Al punto che, nel disegno di Aliverta, va a baciargli la mano anche quando è bello che morto, dentro la bara in cui l’ha accompagnato il Commendatore: lui va tre metri sotto, lei rimarrà per sempre prigioniera di se stessa.

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Foto e video | Tutte le immagini in pagina sono gentilmente concesse dal Teatro Ristori di Verona e dal Festival “Mozart a Verona”

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Info

Don Giovanni | di Wolfgang Amadeus Mozart

Direzione | Massimo Raccanelli
Regia | Gianmaria Aliverta
Orchestra su strumenti originali | Frau Musika
Coro | Andrea Palladio
Direttore coro | Enrico Zanovello

Don Giovanni | Lodovico Filippo Ravizza
Leporello | Marco Filippo Romano
Don Ottavio | Julian Prégadiern
Donna Elvira | Valentina Mastrangelo
Donna Anna | Caterina Marchesini
Masetto | Giovanni Luca Failla
Zerlina | Georgia Tryfona
Commendatore | Renzo Ran

Web | www.teatroristori.org

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