Dicono che il giornalismo sia morto, invece è così in buona salute da condizionare ancora in modo consistente l’opinione pubblica e le decisioni dei politici. Come sulla guerra in Ucraina, ridimensionata in brevissimo tempo ad un minuscolo puntino nel radar dei media. Prima del conflitto in Palestina, i destini del mondo sembrava dipendessero da Kiev. Poi la guerra è improvvisamente evaporato dalle cronache.
Sostiene Maxwell McCombs: “In America il Partito repubblicano si è spostato a destra sposando l’isolazionismo”, da quando Kiev è sparita dalla mappa dei media. McCombs, professore emerito alla Texas University, sta ai media come Isaac Newton alla fisica (chiediamo venia ai cultori delle scienze dure per l’ardita metafora). Insieme a Donald L. Shaw inventò la teoria dell’agenda setting negli anni ’60. Dice la teoria (e gli accademici ci scuseranno per la brutale sintesi): i temi che occupano più spazio sui media possono diventare i problemi più importanti per l’opinione pubblica. L’articolo che battezzò l’agenda setting è forse il più citato nel campo delle comunicazione di massa, secondo l’Enciclopedia Britannica. Uscì nel 1972 su Public Opinion Quarterly, titolo: “The Agenda-Setting Function of Mass Media”. Più di 50 anni dopo, è ancora un caposaldo.
Professor McCombs, pare farsi strada la possibilità di un negoziato tra Russia e Ucraina e in molti paesi occidentali cresce il malcontento per l’invio di armi a Kiev: sarebbe successo se i media avessero continuato a dedicare ampio spazio al conflitto di Putin?
Se la copertura mediatica dell’Ucraina fosse rimasta elevata, penso che molto probabilmente ci sarebbe stata una maggiore discussione sulla necessità per l’Occidente di continuare a fornire armi e munizioni, nonché sui limiti dei negoziati con la Russia.
Il declino della guerra nella copertura dei media sta cambiando le scelte politiche Usa su Kiev?
Sì, ora c’è una significativa opposizione tra i repubblicani al Congresso alla continuazione dell’assistenza all’Ucraina.
Allora il giornalismo non è morto.
Tutt’altro. I media influenzano, ma non dettano, l’agenda pubblica. La correlazione tra l’agenda dei media e quella pubblica è in media circa 0,50. Ossia non una corrispondenza perfetta, che assumerebbe il valore +1. Un recente studio sugli effetti dell’agenda setting, in 16 Paesi dei 5 continenti, ha rilevato un effetto medio di agenda setting pari a 0,63. Un altro esperimento sul campo, raccontato sulla rivista Science, ha reclutato 48 media per pubblicare in modo casuale notizie su vari temi. L’esperimento ha aumentato del 63% le successive discussioni su Twitter su quelle questioni: per Science, una delle prove più rigorose e convincenti sul potere dei media di definire l’agenda.
Qualcosa di simile è accaduto con il Covid che era l’emergenza finché Mosca non ha attaccato Kiev. Poi il Covid è sembrato sparire improvvisamente sebbene la pandemia, seppur sotto controllo, non lo sia certamente….
L’opinione pubblica raramente rimane concentrata su una questione per molto tempo: un problema balza improvvisamente alla ribalta, rimane lì per un breve periodo e poi, sebbene ancora in gran parte irrisolto, gradualmente si defila mentre un altro prende il centro della scena. Il Covid è stato sostituito dall’Ucraina, a sua volta soppiantata dal conflitto Israele-Hamas.
Ci sono casi storici che documentano il potere dei media sull’agenda politica e dell’opinione pubblica?
I casi sono molti, a partire dalla guerra alla droga.
Il timore delle droghe è un caso di agenda setting?
Negli Stati Uniti la preoccupazione cominciò a crescere alla fine del 1985, quando il New York Times pubblicò il primo di oltre 100 articoli. Seguendo il Times, l’anno successivo ci fu una storia di copertina su Newsweek, speciali su due reti televisive nazionali e un’impennata nella copertura della droga sui giornali di tutto il Paese.
Il pubblico come reagì?
Prevedibilmente, crebbe la preoccupazione per la droga. Il crescente spazio sui media e l’aumento dell’interesse del pubblico è un caso drammatico di “pura” agenda setting, perché non ci fu alcun cambiamento nel consumo di droga in tutti quei mesi. La paura non era affatto una risposta ad un cambiamento nella realtà. Ma l’attenzione del pubblico è volatile: nel settembre 1989, il 63% della popolazione considerava la droga il problema più importante che il Paese doveva affrontare. Un anno dopo, appena il 9% la considerava tale.
Altri casi storici?
I diritti civili negli Usa. In 23 anni, dal 1954 al 1976, l’importanza del tema oscillò in risposta alla copertura giornalistica. Lo testimoniano i 27 sondaggi Gallup condotti in quei tre decenni: gli americani che consideravano i diritti civili “il problema più importante” del Paese, variavano dallo zero al 52%. Ciascun sondaggio è stato confrontato con la copertura delle notizie sulla prima pagina del New York Times del mese precedente. Il risultato è stato una robusta correlazione di +0,71.
Durante tutti gli anni ’60, i mezzi d’informazioni hanno contribuito a definire l’agenda dell’opinione pubblica Usa. Per l’istituto di sondaggi Gallup, in cima all’agenda pubblica c’erano il Vietnam, le relazioni razziali e le rivolte urbane, i disordini nei campus e l’inflazione. Confrontando l’importanza dei 14 temi percepiti più importanti, con la copertura di quelle stesse questioni sul Time, Newsweek e US News and World Report, emerge una correlazione di +0,78. Un alto grado di corrispondenza.
In Europa?
C’è il caso della crisi petrolifera in Germania, tra il 1973 e il 1974. In realtà, non ci fu nessuna carenza di idrocarburi, a Berlino. Ma tra ottobre e novembre del 1973 sulla stampa tedesca aumentarono costantemente gli articoli su una presunta “crisi energetica”. Invece le importazioni tedesche di petrolio, a settembre e ottobre, erano aumentate rispetto agli stessi mesi dell’anno prima e a novembre furono più o meno le stesse. Eppure, proprio a novembre, più di due terzi dei proprietari di veicoli temevano una grave carenza di carburante.
Ci sono casi di studio più recenti?
Nel 2014 si è concluso uno studio iniziato nel 1992 presso l’Università di Göteborg. I ricercatori hanno verificato l’effetto di agenda setting su 12 questioni politiche. In sintesi, nell’ultimo mezzo secolo sono stati riscontrati forti effetti di definizione dell’agenda da parte dei mezzi di informazione per un’ampia varietà di questioni in Paesi di tutti e cinque i continenti. L’alto grado di omogeneità tra le agende dei media riscontrato nell’indagine originale di Chapel Hill del 1968 sull’agenda setting continua ancora oggi.
Quali media influenzano di più l’agenda del sistema politico: i giornali o la TV? Nel secondo caso: telegiornali o talk show?
Per molti anni si è creduto che la stampa fosse più forte della tv nella definizione dell’agenda, in parte perché fornisce resoconti più dettagliati. Tuttavia, dipende. Talvolta stampa, tv e e social network parlano in un coro unico, con agende simili. Lo testimoniano le ricerche di Pablo Boczkowski in Argentina: del resto, i giornalisti controllano sempre la concorrenza. Nella maggior parte dei casi, forti effetti di definizione dell’agenda derivano dall’impatto collettivo dei media (non da un mezzo specifico) e da un continuo processo di osmosi civica.
Spieghi meglio: cosa significa osmosi civica?
L’esposizione prolungata nel tempo a un vasto mare di informazioni provenienti da molti canali. Le persone scelgono programmi tv, giornali o profili social preferiti; ma guarda e ascolta anche tutto il resto, a volte per puro caso. Un’analisi Nielsen sull’audience negli Stati Uniti ha rilevato livelli molto alti di duplicazione del pubblico in 236 mezzi di comunicazione. Le nicchie isolate le une dalle altre non sono la regola. Il risultato è un alto grado di consenso tra il pubblico sulle principali questioni del giorno. Nelle elezioni spagnole del 1996, i lettori del quotidiano Diario de Navarra avevano priorità molto simili a quelle del loro giornale, ma anche della principale testata concorrente.
I social network hanno cambiato il ruolo dei mass media nell’influenzare l’agenda?
Secondo alcuni esperti, i social media e il catalogo infinito dei contenuti online avrebbe decretato la fine dell’agenda setting. Cioè, stampa e tv avrebbero perso il loro potere di influenzare le priorità del dibattito pubblico. Non è andata così: la schiacciante preponderanza delle prove suggerisce che, sebbene i social media abbiano un impatto secondario, il ruolo di definizione dell’agenda dei media tradizionali persiste in gran parte.
Quali sono le prove?
Negli Usa hanno confrontato per due anni l’agenda di Twitter (ora X, ndr) con quella dei principali media tradizionali. Risultato: quando stampa e tv si spostavano su nuovi temi, dopo un po’ accadeva lo stesso su Twitter. In Spagna i temi più importanti per l’opinione pubblica sono corruzione e disoccupazione: tra chi utilizza Facebook per leggere notizie, il 35% dà la priorità a quelle due questioni; tra chi evita il social, invece, la quota sale al 47%. Un scarto limitato. Alcune ricerche in Luisiana e Carolina del nord suggeriscono come il web incida poco sugli effetti di agenda setting: chi passa poco tempo su internet mostra una correlazione con l’agenda dei media di +0,90; per quelli che trascorrono molto tempo sul web, la correlazione è +0,70.
Stampa e tv influenzano allo stesso modo l’agenda dei nativi digitali e quella delle persone più anziane?
Il modello generale è caratterizzato da forti effetti di definizione dell’agenda nel corso degli anni, senza grandi differenze tra le generazioni. Per i più giovani, la correlazione mediana è pari a +0,77 in questi decenni. Per le persone di età compresa tra 35 e 54 anni, la mediana è +0,79. Tra quelli di età pari o superiore a 55 anni, il valore medio è +0,77.
A volte i media danno grande risalto ai fatti di cronaca nera anche quando i crimini diminuiscono. Questo non alimenta la paura?
Sì questo accade, le prove sono abbondanti. Qui in Texas, sin dagli anni ’90, il timore per la criminalità era indipendente dalla realtà. Nel 1992, secondo il Texas Poll, era il problema più importante per il 2% delle persone. Nell’autunno dell’anno dopo la percentuale salì al 15%, nel 1994 superò il 33%. Eppure in quel periodo il tasso di criminalità stava diminuendo. Però i due principali giornali del Texas, il Dallas Morning News e lo Houston Chronicle, dal 93 al 95 seguirono intensamente i fatti di cronaca nera. La stessa tendenza è stata riscontrato tra i lettori dei quotidiani di Chicago, Filadelfia e San Francisco. Ma anche la televisione ha grandi responsabilità nella diffusione della paura. George Gerbner parlava “della sindrome del mondo meschino”. Scriveva che “l’esposizione a lungo termine alla televisione, in cui la violenza frequente è praticamente inevitabile, tende a coltivare l’immagine di un mondo relativamente meschino e pericoloso”.