Mezzo milione di persone in Cile tiferà oggi Palestina nell’ottavo di Coppa d’Asia contro i padroni di casa del Qatar. A Santiago saranno le 13 al calcio d’inizio: il caldo forte di questi giorni sarà un motivo in più per accomodarsi di fronte alla tv e sostenere la nazionale guidata dal 2021 da tunisino Makram Daboub. In Cile c’è la maggiore comunità di palestinesi al di fuori del mondo arabo. Il flusso immigratorio cominciò alla fine dell’Ottocento, quando l’Impero Ottomano sta avviandosi verso il declino. Diecimila palestinesi sbarcarono in Cile, trovando un paese che concesse loro opportunità importanti. I nuovi arrivati si dedicarono al commercio, poi diedero impulso all’industria tessile. Dopo la creazione d’Israele – 14 maggio 1948 –, una seconda corrente immigratoria. Il calcio, il 20 agosto 1920, aveva già abbracciato la nuova realtà, con la fondazione del Club Deportivo Palestino, colori sociali bianco, rosso e verde ispirati della bandiera: sarà campione del Cile nel 1955 e nel 1978. Roberto “Peto” Kettlun, 42 anni, ex centrocampista, origini palestinesi, spiccò il volo nel Palestino. Nel 2007 sbarcò a Brindisi. Cinque stagioni in totale in Italia: Santegidiese, Teramo, Olympia Agnonese, Casarano e ancora Brindisi. Nel 2012, si trasferì a Ramallah per indossare le maglie di Hilal Al-Quds e Al-Khalil. Dopo 70 partite tra gare ufficiali e non con la nazionale palestinese, nel 2017 il ritiro e un incarico in federazione. Roberto è tornato in Cile nel 2019. Anche lui, oggi, tiferà per i “Cavalieri”, soprannome della squadra di Daboub. Roberto ha il passaporto italiano e la sua attuale compagna è di Vittorio Veneto.

Partiamo dai ricordi: il bello e il brutto dei suoi anni in Palestina.
“Il bello fu la passione della gente per il calcio, i sorrisi dei bambini, l’esperienza umana profonda. Il brutto furono le difficoltà quotidiane per allenarsi e i soprusi dei soldati israeliani. Dovevamo attraversare ogni giorno il check point Qalandyia, tra Ramallah e Al-Aràmbula, uno dei più delicati della zona. Il campo era subito dopo il confine. Quando c’erano tensioni e gli israeliani sparavano i gas lacrimogeni, dovevamo rifugiarci in fretta negli spogliatoi. Spesso le sedute di lavoro venivano sospese. La cosa più dura, insopportabile, il passaggio al check point. Si sapeva che eravamo calciatori, ma i soldati ci puntavano il fucile contro e ogni volta si pregava perché non partisse un colpo. Ci spintonavano, ci trattavano in modo sbrigativo, c’era sempre ostilità nei nostri confronti. Talvolta i soldati seguivano le nostre sedute di lavoro in tribuna, con i mitra bene in vista”.

Il momento migliore?
“Nel 2015 conquistammo la Coppa della Palestina. Il nostro allenatore era l’italiano Stefano Cusin. Anche lui è stato testimone della realtà palestinese”.

Il suo incarico in federazione in che cosa si tradusse?
“Come consulente dello sviluppo dello sport, partecipai al congresso Fifa in cui facemmo causa alla federazione israeliana. La nostra denuncia si articolò in tre punti chiave: razzismo, ostruzione allo sviluppo del calcio in Palestina e violazione dei regolamenti. La Fifa ci inviava periodicamente materiale per svolgere l’attività. Questi beni venivano sempre sequestrati e consegnati con enorme ritardo. A volte sparivano. Dopo la nostra denuncia, ci fu la rappresaglia. La sede della federazione palestinese fu devastata”.

La sua idea sulla guerra in corso, scoppiata il 7 ottobre dopo gli attacchi terroristici di Hamas che provocarono la morte di oltre mille israeliani e la reazione del governo di Tel Aviv che in quasi 4 mesi ha prodotto 27 mila vittime?
“I problemi principali sono due: gli accordi commerciali Israele-Stati Uniti sulla vendita di armi e la politica di Netanyahu. L’attuale governo è ispirato dal sionismo più radicale e come ha ribadito lo stesso Netanyahu, contrario alla formula dei due Stati. Netanyahu e i suoi ministri non rappresentano però la realtà integrale di Israele. Sono stato più volte a Tel Aviv. Ho conosciuto molte persone che vorrebbero vivere in pace e non hanno pregiudizi razziali nei confronti dei palestinesi”.

La Palestina ha ottenuto un risultato straordinario qualificandosi agli ottavi di Coppa d’Asia dopo quattro mesi di guerra e di orrori.
“Conosco bene lo spirito di resilienza dei palestinesi. Dal 1948 vivono tra guerre e precarietà. Il mondo osserva e giudica da fuori: bisogna vivere la realtà di quella terra nel suo interno per provare a capire. Questi giocatori da centoventi giorni sono costretti a stare lontano dalle famiglie per svolgere la loro attività. Alcuni di loro, come il difensore Mohammed Sahle e il portiere Rami Hamadeh, li ho visti crescere e li ho sostenuti nei primi anni di carriera. La nazionale palestinese per me non è solo un richiamo delle origini. È anche un pezzo di vita e di cuore”.

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