di Eugenio Mazzarella*
La Corte dell’Aja ha respinto la richiesta di Israele di archiviare la denuncia per genocidio a Gaza del Sudafrica, ritenendo ammissibile la controversia e la sua competenza a pronunciarsi sul caso. Lo ha affermato l’americana Joan Donoghue, presidente della Corte. Il motivo è che “almeno alcuni atti sembrano in grado di rientrare nella convenzione sul genocidio”. E sebbene la Corte non abbia ordinato a Israele il cessate il fuoco a Gaza, ha affermato che “Israele deve adottare tutte le misure in suo potere per prevenire e punire l’incitamento diretto e pubblico a commettere un genocidio, in relazione ai membri del gruppo palestinese nella Striscia”. Una sentenza in equilibrio tra Realpolitik (ordinare a Israele un immediato cessate il fuoco non avrebbe sortito alcun effetto, se non l’irrigidimento delle posizioni di Netanyahu) e diritto internazionale, con il riconoscimento da un lato del diritto di Israele a difendersi, ma dall’altro che questo diritto ha esondato i limiti e i confini del diritto internazionale e del diritto umanitario.
Fondamentalmente, una spinta a Israele a “ragionare”, in una prospettiva che non sia quella drammatica di “noi o loro”, dove “loro” non è più e non può essere solo Hamas, ma il popolo palestinese, considerato come irrimediabile humus di cultura del terrorismo e come tale da sradicare dalla Palestina – non Hamas ma i palestinesi in quanto palestinesi. Che è peraltro il senso dell’insultante proposta di qualche giorno fa di esponenti israeliani di un’isola artificiale di fronte a Gaza dove deportarli. In sostanza, la Corte dell’Aja ha fotografato una situazione di genocidio preterintenzionale o potenziale, sollecitando ad evitarlo per non incorrere in una condanna per cui potrebbe esserci materia.
Le prime reazioni di Israele non sono incoraggianti. Tacendo della turpe dichiarazione del ministro della Sicurezza nazionale, Ben-Gvir, sulla Corte dell’Aja “antisemita”, è preoccupante la presa di posizione di Netanyahu: “la guerra ad Hamas serve per evitare una nuova Shoah”. Il cui corollario è lo sradicamento dalla Palestina delle condizioni di un qualsiasi attacco allo Stato di Israele in quanto gesto genocida. Un obiettivo, una nuova Shoah, evidentemente del tutto fuori portata di ogni organizzazione terroristica, e considerate le sacrosante garanzie occidentali e internazionali all’esistenza di Israele, fuori della portata di qualsiasi Stato arabo.
La reazione di Netanyahu è piuttosto sintomatica di altro. E cioè della strategia, se ve n’è una, di questa guerra cui non si vuol porre fine. Prendendosi consapevolmente il rischio di passare la linea rossa del genocidio segnalata dalla Corte. Dal momento che su 25mila morti a Gaza due terzi sono donne e bambini, e quindi almeno questi 17mila morti sono già 17mila singoli atti genocidari, ammesso l’inverosimile statistico che gli 8mila maschi adulti ammazzati siano tutti miliziani e nessun civile incolpevole per caso, se il governo di Netanyahu si assume questo rischio di immagine e di ulteriore isolamento internazionale, la ragione sensata può essere una sola: formalizzare l’annessione della Cisgiordania, e ridurre Gaza (se non si riesce ad espellere i due milioni e mezzo di palestinesi) ad una sorta di micro Libano, pseudo staterello fantoccio, bombardabile in ogni momento se non sta buono. Può accettare la comunità internazionale una prospettiva di questo tipo? Uno scenario da incubo.
È tempo che l’opinione pubblica, che non sta sugli spalti in tribuna a tifare per gli uni o per gli altri nel dramma che si vive in Palestina da 75 anni, sappia mostrare equivicinanza – a Israele e ai palestinesi – alle loro ragioni e alle loro sofferenze, ed equidistanza dai loro torti e dalle loro violenze. Ma questa equivicinanza e questa equidistanza (che per altro serve all’Occidente e in primis agli Usa se vogliono avere credibilità sui tanti teatri di crisi aperti nel mondo) devono farsi una proposta di gestione internazionale della crisi in Palestina.
La formula dei due Stati non ha più senso. Dopo 75 anni, non c’è più “terra” perché i palestinesi abbiano uno Stato. E un unico Stato con eguale cittadinanza tra i due popoli è pura utopia. Allora cosa fare? Probabilmente, con il sostegno degli Usa, solo far diventare un mandato amministrativo europeo quel che resta dei territori che dovevano diventare lo Stato palestinese, potrebbe dare sicurezza ad Israele e dignità autogovernata sotto la tutela europea alle istanze di autonomia del popolo palestinese. Preparando un futuro realistico al recupero della proposta di due popoli, due Stati. L’alternativa è solo ondate terroristiche generazionali da una parte, risposte genocidarie dall’altra.
* Filosofo, politico e poeta. Professore ordinario di Filosofia teoretica presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II, è tra i principali interpreti italiani del pensiero di Martin Heidegger. Deputato al Parlamento nella XVI Legislatura per il Partito democratico.