Di Gigi Riva non ho scritto. Volevo farlo, ma avrei dovuto studiare quello che sapevo già. Ci sono cose che sai, che capisci in profondità, ma se non le hai studiate a fondo non puoi scriverne. D’altro canto io sono del ’65, e purtroppo un po’ di cose le ricordo appena. Le ho perse per generazione.
Dunque quello che non ho studiato (i minuti, insignificanti eppure basilari dettagli delle vite, delle biografie, degli episodi) lo lascio a Luca Telese, che ne fa un racconto perfetto. Ma quello che so, invece, lo scrivo. Ci penso ogni volta che vedo un giocatore talentuoso ma senza “garra”, senza quel “duende” che nello sport (e nella vita) è tutto. E mi dispiaccio così tanto per lui. Chi ha pochi talenti ma ci prova, per me, sarà sempre un eroe, mentre chi ne ha tanti e li spreca lo disprezzo.
Parlo della fame. Non necessariamente fame di cibo. Le privazioni sono brutte, e basta. Sembrano belle solo a qualche romantico con la pancia piena, servono solo a scaldare la sua vita fredda e vuota. Ma la “fame” è un’altra cosa, e fa rima con l’umiltà. Il non dare mai niente per scontato, il non “abituarsi”. E il godere di niente. Pensare alto e vivere basso. Insomma: come eravamo (e come io, a scanso di equivoci, e tanto per farmi odiare sempre un po’, mi sento oggi).
Gigi Riva adottato da una regione, da un popolo. Lui che veniva dal lago del nord disse di no a soldi e vittorie per questo (un no alla Juventus allora era molto di più che un no al Real Madrid oggi). Per gratitudine, per l’umiltà che ti fa dire “io sto qui”. Uno degli eroi del Messico (Italia-Germania 4-3) tornato senza coppa ma con grande onore (suo il terzo goal, determinante come quello di Rivera).
Io ho sempre ammirato Riva e quelli (neppure pochi) come lui. Mi sono sempre piaciuti tanto perché sudavano, perché davano sempre più di quello che erano. Io seguo il calcio, e qualunque sport, e qualunque altra pratica avventurosa, solo per questo: perché ci sono cose di cui l’uomo è capace che fanno tremare il cuore non per quello che sono, ma perché danno speranza. E la speranza è sempre la stessa: essere migliori, poter crescere, potersi candidare a grandi imprese, senza mai perdere la meraviglia. Senza farsi prendere per il culo dai simboli. Senza farsi modificare geneticamente da denaro, potere, fama, successo. Cioè essere così forti, così autentici, così “uomini” da sentirsi sempre miracolati, baciati dalla fortuna, stupiti dai propri talenti. Senza mai invidiare nessuno, anzi, facendo il tifo per quelli bravi, sperando sempre che ce la facciano.
Non cedere mai ai simboli che vorrebbero modificarti, e diventare simboli noi stessi, questo mi insegna la gente come Gigi Riva. In queste icone ho sempre visto la profonda libertà di sovvertire le regole, di farcela con le proprie forze, di non diventare brutti, dopo, anzi migliori. Una volta un maestro mi disse: “Se quando le cose ti vanno bene non sei più bello, non sei più gentile, non sei migliore, a che è servito? Misura sempre il successo da questo, vedrai quanta poca gente da ammirare troverai”. Ecco perché ho sempre ammirato quelli così.
E lo dico (a costo ancora di farmi odiare): ammiro quella povertà. Quella “che non è miseria” (Bianciardi). Anzi, quella che è dignità. Noi italiani al gioco di povertà e dignità eravamo maestri. La povertà di provare meraviglia in un grande albergo ma poi saper tornare in una provincia era bella. Era salvifica. Dentro non c’era alcuna frustrazione, anzi. C’era orgoglio. E tutto, ma proprio tutto, era arrivato grazie alle mani (e i piedi). Solo mani pronte ad aprirsi, a chiudersi, ad afferrare, aggrapparsi, tenersi. Mani che aperte rivelavano il niente che avevano, che però era tutto. Mani rovinate, callose, invecchiate dalla nobiltà del niente. Che però era tutto. Mani che era bello stringere. Mani che da Marcinelle a Brooklyn, dal Carso al Sulcis, applaudivano uno come loro. L'”Hombre Vertical” che quando entrava in campo faceva tremare.