di Carmelo Zaccaria
Non c’è dubbio che queste adunate di camicie nere con le braccia tese e intrepide invocazioni al duce saranno sempre più frequenti e intense, anche perché, come ha ricordato Edith Bruck, non sono per niente sgradite, se non tacitamente autorizzate, da questo governo. La storia non si ripete mai alla stessa maniera, ma ciò non significa minimizzare le inequivocabili avvisaglie di una ritrovata consapevolezza da parte di una frangia scalmanata di “arditi” in cerca di una rivincita clamorosa, dopo decenni di rintanamento nei lugubri anfratti della storia recente.
Purtroppo, in parallelo, dovremo anche rassegnarci a sopportare le miserevoli sceneggiate di una classe politica dimostratasi sin dall’inizio di questa legislatura insufficiente e sfrontata, priva di scrupoli, famelica di appetiti, mentalmente addestrata ad esacerbare gli animi, ad azzannare l’area dei diritti civili, presentarsi come tenace baluardo delle gloriose vestigia dell’antica Roma.
Ma i valori dell’antica Roma, quelli che ci hanno fatto diventare padroni del mondo, come scrive nel suo libro Aldo Cazzullo, sono difficilmente replicabili. L’Impero Romano fu una grande epopea di uomini fecondi che seppero modellare una società dinamica e risoluta, venerata allora e riconosciuta ancora oggi, costellata da gesta leggendarie e non da volgari buffonerie. Muzio Scevola per uno sbaglio ci rimise il braccio con una dignità esemplare, mentre nella notte brava di Capodanno non si è riuscito ancora a capire chi impugnò l’arma e chi la fece esplodere, mostrando un atteggiamento codardo e omertoso, degno della più goffa fascisteria.
Roma si fece strada e trionfò attraverso la capacità di una classe dirigente che andava a viso aperto a scoprire le idee degli altri, per comprenderle e impossessarsene. Portò dentro le proprie mura migliaia di cittadini per assorbirne i costumi, le convinzioni religiose, l’esperienza, i mestieri e i saperi. Non solo con l’esercizio delle armi e attraverso le vittorie militari, ma anche con il viatico dell’intelletto e la consistenza morale si è compiuto il destino millenario della civiltà romana. Per emularli non basta sentirsi loro eredi solo perché si frequentano gli stessi luoghi, né può bastare l’esibizione di riti squadristici. I popoli antichi, pur assoggettati, amavano Roma perché dava, a chi la sceglieva come dimora, la speranza di poter contribuire a costruire un mondo migliore. Certamente non ci sarebbe stata una grande Roma senza Cesare e i suoi pretoriani, ma non sarebbe durata sino ai giorni nostri se non ci fossero stati Virgilio e Orazio, senza l’amore per l’arte, la sua proverbiale multietnicità e mescolanza di etnie.
Non sarebbe stato possibile diffondere la propria egemonia culturale se avessero pensato di farlo assegnando qualche incarico pubblico a funzionari inesperti e corrotti nei vari angoli dell’Impero, come cerca disperatamente di fare questo governo, pensando di poter imporre la cultura del suo cerchio asfittico invece di lasciar spazio alle diversità di cui si ciba la suprema cultura. Quel ministro che dopo aver fermato con un atto di imperio un treno pubblico dichiara in modo tracotante: “Ho ritenuto di chiedere una fermata straordinaria senza la pretesa di un trattamento di favore”, denota una preoccupante carenza di sensibilità civica e compostezza istituzionale, ma ricorda piuttosto l’esilarante scena dell’arrivo alla stazione del gerarca fascista nell’Amarcord di Fellini. Dopo l’uscita del film, in un’intervista a Enzo Biagi, parlando del fascismo, Fellini disse: “Se non siamo cresciuti tutti cretini è un miracolo”.
Il personale politico di questa destra non si sente di avviare una revisione storico-culturale di quello che fu e rappresentò il fascismo per il nostro Paese, proprio perché si sente a suo agio nel parodiare in modo spavaldo e gigionesco quel triste e – si spera – irripetibile Ventennio. In realtà non vogliono proprio essere sdoganati, si piacciono così. Ed è proprio questo che ci deve preoccupare.