Doveva essere la rivoluzione copernicana, l’innovazione decisiva per abbattere i tempi della giustizia e rispettare i target del Pnrr. E invece, da qualche settimana, il processo penale telematico introdotto dalla riforma Cartabia sta paralizzando il lavoro delle procure e degli uffici gip di tutta Italia. La colpa è sempre di “App“, il software del ministero che dal 1° gennaio avrebbe dovuto sostituire tout court i fascicoli cartacei: un piano già abortito, perché nella fase di sperimentazione – come ha raccontato il Fatto – il sistema ha mostrato problemi enormi ed è stato giudicato inutilizzabile nel report finale inviato al Csm. Così il Guardasigilli Carlo Nordio è corso ai ripari e ha rinviato di un anno l’applicazione delle nuove regole. Ma non del tutto: l’obbligo di deposito su “App” è stato mantenuto – ed è entrato regolarmente in vigore – per le archiviazioni e le richieste di archiviazione. Manco a dirlo, però, le carenze tecniche non sono state risolte. Il risultato è un rallentamento grottesco di queste procedure: anche il fascicolo più banale, che prima si definiva in pochi secondi, ora obbliga a compiere una decina di passaggi su una piattaforma lenta e farraginosa. Se tutto va bene: il più delle volte, infatti, “App” va in tilt e impedisce qualsiasi attività. “Sono più i giorni in cui non funziona di quelli in cui funziona. Da noi è rimasto bloccato anche per più di 48 ore e le archiviazioni semplicemente non si sono fatte”, racconta al Fatto Stefano Musolino, procuratore aggiunto di Reggio Calabria e segretario di Magistratura democratica (storica corrente progressista delle toghe). “Un altro esempio dell’incapacità e dell’inefficienza del ministro che si ripercuote sul nostro lavoro”, attacca. E una potenziale violazione di diritti per i cittadini indagati in attesa della definizione dei loro procedimenti: si pensi, ad esempio, a chi deve deve avere i carichi pendenti “puliti” per partecipare a un concorso pubblico.
Per capire l’entità del problema bisogna tener conto di un dato: circa il 70% dei procedimenti penali termina con l’archiviazione in fase d’indagine. Sulla scrivania di ogni pm e gip si affastellano ogni giorno montagne di carte tutte uguali da smaltire: l’esempio classico è la denuncia per furto o danneggiamento contro ignoti, quando non è possibile individuare il responsabile. Fino a ieri questi fascicoli si archiviavano con un modulo standard, in cui il pm sceglieva una motivazione prestampata, aggiungeva a mano data e firma e mandava al gip. Pratica sbrigata in pochi secondi. Dal 1° gennaio tutto è cambiato: il magistrato deve accedere ad “App” autenticandosi, indicare l’ufficio di appartenenza, inserire gli estremi del fascicolo, cliccare su “redigi atto” e su “archiviazione“; poi va scelta da un menu la motivazione, e qui spunta il primo ostacolo. Se l’indagine è contro ignoti, infatti, compaiono solo le opzioni “Autore ignoto” o “Il fatto non sussiste”, mentre non è contemplato un caso frequentissimo, cioè l’assenza di querela (o la querela tardiva) per un reato non perseguibile d’ufficio. Poi bisogna inserire l'”oggetto” dell’archiviazione: in pratica ripetere il passaggio precedente, scrivendo però la motivazione in un campo apposito. Solo a questo punto si arriva a compilare l’atto vero e proprio. Il sistema propone all’utente alcuni modelli, ma modificarli online è impossibile: la piattaforma si blocca. Se si vuole cambiare anche una sola lettera, l’unica strada è caricare dall’esterno un file preparato in precedenza, in cui andranno copiati estremi del fascicolo, intestazione, motivazione e data. Questo passaggio, da solo, richiede almeno il triplo del tempo rispetto all’archiviazione cartacea. Ma ecco la beffa: per procedere in questo modo bisogna giustificare ad “App” il motivo, scegliendo tra una delle opzioni standard (ad esempio “Modello incompleto”) oppure, se si ha tempo da perdere, optando per una “descrizione libera”. Il tutto moltiplicato per centinaia e centinaia di fascicoli l’anno.
Insomma, anche quando tutto funziona al primo colpo, l’archiviazione telematica allunga i tempi a dismisura. “Prima riuscivo ad archiviare un fascicolo in meno di dieci minuti, ora ci vogliono almeno due ore”, ha denunciato il procuratore di Napoli Nicola Gratteri all’inaugurazione dell’anno giudiziario. Inoltre, i crash del sistema sono la regola: le chat e le mailing list dei magistrati ribollono quotidianamente di sfoghi e anatemi. “Stamattina nel mio ufficio il sistema è bloccato e non consente l’accesso, e in questi giorni siamo riusciti a inviare non più di tre o quattro richieste. Prima ci ribelliamo, segnalando con fermezza che “App” è radicalmente inadatto a gestire le indagini preliminari, e meglio è”, scriveva nei giorni scorsi ai colleghi il procuratore di Ascoli Umberto Monti. In tanti se la prendono con Nordio: “Le ricadute sugli assetti degli uffici saranno devastanti. Naturalmente il ministro, che per questo disastro dovrebbe dimettersi, non si assumerà la responsabilità”, pronostica in chat un gip del Sud. Qualcuno cede allo sconforto: “La sensazione di non essere più un magistrato, ma un funzionario che “flagga” caselle, è fortissima”, racconta in mailing list un pm siciliano. “Confesso di aver provato anche un senso di inutilità quando, dopo la terza volta che non si riusciva a copiare sul modello il testo della richiesta di archiviazione, ho abdicato e salvato le due righe del modello dandola vinta al sistema. Per la prima volta mi sono trovato a subire un vero e proprio condizionamento nel modo in cui ho esercitato la giurisdizione”. Una situazione che crea effetti paradossali: “Chiedere il rinvio a giudizio è diventato più semplice che archiviare“, scherza (ma non troppo) un giovane sostituto. Non male, per il ministro più garantista di sempre.