di Marilù Oliva
È da dieci anni che i soldati si consumano dietro a questa guerra. Troia pareva inespugnabile, all’inizio, i Greci erano giunti qui con la spavalderia di chi vuole arricchirsi calpestandoti. Oltre mille navi avevano attraccato sulla nostra costa, colme di eroi assetati di sangue e fama. Lasciavano a casa le loro mogli: alcune di esse avrebbero dovuto difendere con sudore il trono vacante, altre li avrebbero dimenticati.
Secoli di gesta tramandate di bocca in bocca, i protagonisti sarebbero diventati grandi eroi. Ma nessun cantore avrebbe svelato il vero motivo dell’attacco acheo: i Greci volevano prenderci, spremerci, sfruttarci. Se davvero pensate che decine di migliaia di uomini siano approdati in Asia Minore all’inseguimento della bella Elena, che si siano messi in mare per pedinare un sogno d’amore, allora non avete capito niente. Il mondo, oggi come allora, funziona sulla base di due principi che gli uomini seguono ciecamente: soldi e potere. Essi sono il fine, la sopraffazione è il mezzo. Per ottenerli, i popoli sono disposti a tutto. Incluso il compromesso più necessario: massacrare i loro simili. In questo le cose non sono cambiate, anche se ci separano più di tremila anni. E io lo so perché il dio Apollo mi ha fatto il dono della preveggenza. Anche lui tentò di conquistarmi, ancora prima che le sorti venissero decise: voleva impadronirsi di me come si fa con una città. Cercò di allungare sui miei fianchi le sue mani divine, che fece scendere giù, in mezzo alle gambe. Come posso scordare quel tocco? Come se mi avesse accarezzato, senza bruciarmi, una stella cometa. Io però non lo volevo e tentai di sottrarmi. Fu allora che capii che gli dei non ammettono un rifiuto. Si dileguò rabbioso e impermalosito, silenzioso com’era arrivato, simile a un sogno che svanisce nel mattino lucente.
Mi ritrovai all’istante mutata. Mi guardavo attorno spaesata e mi stringevo da sola le braccia. Ero diversa, bruciata dall’ansia, come trafitta da una spada: il senso della tragedia pendeva su di me. Spietato come solo può esserlo la successione delle azioni umane. Giorno e notte mi scorrevano davanti visioni infauste e vedevo con limpidezza gli epiloghi di tutti: Ettore ucciso e trascinato tre volte attorno alla città attonita, suo figlio Astianatte buttato giù dalle mura da quelle stesse mani che avrebbero abusato della principessa Andromaca: Neottolemo, figlio dell’invincibile Achille, prima le ammazzò il figlio e poi se la portò via come concubina. Lo stesso guerriero uccise il suocero: Priamo, mio padre. Io avevo visto tutto con anni di anticipo: i corpi dilaniati, il fiume Scamandro tinteggiato di sangue, i bambini soppressi, la peste, la fame, i cadaveri che ammorbavano l’aria, le vedove piangenti che si laceravano le vesti e si graffiavano il petto. La nostra città che si accartocciava su se stessa, il legno che schioppettava tra le fiamme, le grida disperate. La preveggenza che mi aveva donato Apollo valicava i millenni. Seppi che sarei morta per mano di una regina greca ma che prima, qui a Troia, nel tempio di Atena, Aiace Oileo mi avrebbe fatto violenza. Sarei stato uno tra gli infiniti stupri di guerra. Vidi le madri chine sui giovani figli morti in battaglia, nella stessa posizione in cui i pittori del Rinascimento avrebbero rappresentato la Madonna che piangeva sul Cristo morto. Come sarebbe accaduto anche le donne di ogni luogo e di ogni epoca, quando una guerra di cui non condividono il senso strappa l’amore dell’anima loro. Così un tempo come oggi: non c’è legge divina né umana che regolamenti la ferocia. I soldati sanno che là possono imperversare in tutta la loro brutalità e ogni protesta verrà soffocata.
La guerra di Troia non è stata la prima né l’ultima: certo è stata la più narrata. Io l’ho raccontata ancora prima che avvenisse, in un certo senso sono stata la prima voce e questo mi ha gettata in un isolamento sordo. La gente non voleva ascoltare sciagure e disfatte, preferiva camminare con le bende sugli occhi e le mani nelle orecchie. Eppure io lo avevo gridato a tutti, a ciascuno era stato consegnato il suo destino: ma nessuno mi aveva creduta.
Persino in casa mi evitavano.
Vattene! – mi cacciava mia madre, che ormai mi detestava e quando mi incontrava, a palazzo, mi guardava torvo. Io cercavo i suoi occhi invano:
Perché non mi credi? Ricordi quando ti ho detto che a Ettore sarebbe nato un figlio? E che quell’inverno avrebbe nevicato per sette notti? Andò esattamente così.
È vero: mi hai detto che a Ettore sarebbe nato un bel maschio. Ma poi hai aggiunto che Ettore sarebbe morto quando il bimbo avrebbe avuto poco più di un anno. E che avrei perso tutti i figli maschi a breve distanza l’uno dall’altro. Ti sembrano cose da dire a una madre, maledetta? Ti maceri giorno e notte tra le disgrazie, porti sfortuna, via da me!
Madre, io non c’entro con gli assalitori. Sono venuti qui all’improvviso, sono tanti, avidi, superbi. Vinceranno e noi soccomberemo. Molto prima che…
Basta, taci!
Andava sempre così: lei mi redarguiva e io mi ritiravo nel mio tragico silenzio. Finché non m’imbattevo in qualcun altro e lì ricominciava la tortura. Avrei tanto voluto incontrare di nuovo Apollo per chiedergli perché mai avesse scelto un castigo così crudele. Mi aveva relegata al ruolo di reietta. Consapevole, sola, disperata.
Altre domande gli avrei voluto rivolgere. Perché ti sei accanito proprio contro di me, doveva essere un monito? In fondo il mio era soltanto il rifiuto di una mortale. Per una che ti diceva no, ne avresti potute sedurre altre mille e mille.
Dio della saggezza e delle arti, tu che sei così bello e sfuggente, così egocentrico e suscettibile, svelami perché gli uomini continuano a farsi la guerra pur sapendo che anche tra i vincitori aleggia sempre il fantasma della sconfitta. Dimmi cosa li divora, cosa provano quando credono di aver raggiunto la supremazia.
Queste e altre parole gli avrei rivolto se lo avessi incontrato.
Ma tanto lui non avrebbe risposto.