Centinaia di docenti, assunti dopo un regolare concorso, rischiano di perdere la cattedra a causa di una sentenza emessa nei giorni scorsi dal Consiglio di Stato. Il caso è paradossale.
Nel 2020 viene bandito un concorso ordinario a cui molti professori non riescono a partecipare perché in piena fase pandemica hanno contratto il Covid e la normativa emergenziale imponeva l’isolamento. I candidati a quel punto, con il sostegno delle sigle sindacali, attraverso il ricorso al Tar, ottengono lo svolgimento delle prove suppletive che si tengono nell’aprile 2023. Molti di loro vengono assunti a tempo indeterminato nell’anno scolastico in corso ma il ministero dell’Istruzione e del merito ricorre a sua volta al Consiglio di Stato contro la sentenza dei giudici amministrativi.

Il 24 gennaio scorso i magistrati di palazzo Spada con una sentenza affermano il principio dell’irrilevanza degli impedimenti soggettivi dei concorrenti, anche se causati da forza maggiore, annullando di fatto la decisione del Tar che aveva ordinato le prove suppletive. Un caos burocratico che ha precipitato oltre cinquecento maestri e professori nel panico e che vede tutti i sindacati schierati contro il Consiglio che sembra scordare la fase emergenziale. La vicenda risale appunto al 2020, quando viene emesso il bando concorsuale che non prevede prove suppletive in caso di impedimento. Siamo in piena emergenza pandemica e in molti non riescono, non certo per loro volontà, a partecipare alle prove scritte programmate in quanto o affetti da Covid-19 o comunque in status di quarantena. Vista la situazione, i docenti ricorrono al Tar per chiedere l’annullamento dei bandi concorsuali. Il tribunale amministrativo accoglie l’istanza e ordina di fissare le prove suppletive che vengono regolarmente svolte due anni dopo.

A quel punto è lo stesso ministero dell’Istruzione a schierarsi contro i docenti già in cattedra con un “appello cautelare” al Consiglio di Stato sottolineando che “la possibilità di deroga alle modalità prestabilite dalla lex specialis e dalla disciplina generale in materia di svolgimento di pubblici concorsi in presenza della emergenza epidemiologica, che ha impedito ai ricorrenti, che hanno contratto il virus o sono venuti a diretto contato con soggetti infetti, di presentarsi alla prova concorsuale, richiama la giurisprudenza consolidata secondo cui meri impedimenti individuali, ostativi alla partecipazione del singolo candidato alle prove scritte di un concorso, non impongono all’Amministrazione un rinvio generalizzato delle relative prove o la predisposizione di sessioni suppletive di esami, prevalendo l’interesse pubblico al celere svolgimento delle operazioni concorsuali”.

Palazzo Spada, con la sentenza dei giorni scorsi, dà ragione a viale Trastevere ribadendo che “la situazione di emergenza epidemiologica da Covid-19, unitamente alle conseguenti misure adottate a tutela della pubblica incolumità, non appaiono idonee a scalfire il tradizionale principio della irrilevanza delle circostanze di forza maggiore ai fini della partecipazione dei concorrenti alle prove scritte di esame, onde assicurare l’osservanza delle regole di contemporaneità e contestualità delle relative sessioni, funzionali a garantire il rispetto della par condicio tra i candidati”. Non solo. Rispetto alla scelta del tribunale amministrativo regionale, il Consiglio di Stato nella sentenza spiega che “non appare completamente soddisfacente il punto di distinzione adottato dal Tar, riferito al periodo di vigenza della situazione di emergenza per la situazione pandemica, in quanto posto in relazione ad una fase storica del tutto eccezionale oramai esaurita che è stata, però, disciplinata secondo precise norme speciali che non includevano una tale scelta, non potendosi peraltro in astratto escludere analoghe situazioni critiche ostative alla partecipazione di una pluralità di soggetti a prove pubbliche per cause imperative di legge estranee alla responsabilità e volontà degli interessati ma non riconducibili ad uno stato di emergenza sanitaria”.

Un provvedimento che i sindacati ritengono “assurdo”. Ad alzare la voce è la segretaria della Flc Cgil Gianna Fracassi che già il 9 novembre scorso aveva scritto in merito una lettera al Capo di Gabinetto del ministero chiedendo un incontro urgente mai ottenuto: “La sentenza del Consiglio di Stato è illogica e ingiusta in quanto determinerà l’assurda situazione in cui docenti che hanno superato un concorso pubblico e stanno svolgendo l’anno di prova con profitto, verranno licenziati come se nulla fosse”. Dello stesso parere il segretario nazionale della Uil Scuola, Giuseppe D’Aprile: “È paradossale che in una situazione emergenziale palazzo Spada applichi delle norme ordinarie tenuto conto delle disposizioni speciali che hanno caratterizzato il periodo Covid. Una vera ingiustizia e un’applicazione rigida delle norme che non dovrebbe appartenere ad un sistema giudiziario moderno e vicino alle persone che, durante il periodo pandemico, avevano un legittimo impedimento nella partecipazione alle procedure concorsuali. Il ministero così si priva di docenti validi e formati aumentando la schiera dei precari”.

Nemmeno Ivana Barbacci, leader Cisl Scuola, è contrariata dalla decisione: “Anche stavolta potremmo dire che i tempi della giustizia sono insostenibili per le persone. Qui si tratta di contenzioso che in primo grado ha dato ragione ai ricorrenti e poi il Consiglio di stato dopo due anni ribalta il giudizio. In sostanza il Consiglio di Stato si esprime in continuità con precedenti giudizi sostenendo che non si ha diritto a prove suppletive se l’assenza nel giorno previsto è dovuta a motivi che attengono a condizioni personali, compresa la malattia dell’aspirante. Peccato che il Covid, all’epoca del concorso 2020, era tutt’altro che una condizione equiparabile ad altre. Si è trattato infatti di uno stato di assoluta emergenza gestita con leggi speciali. Evidentemente la memoria è corta”. E a tutti si unisce il presidente dell’Anief, Marcello Pacifico: “Speriamo il Parlamento ponga fine a un problema che non nasce certamente a causa dei candidati. In tempo di Covid si è derogato a tante norme”.

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