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“Dovevo rapire Gianfranco Zola, ma quando l’ho visto gli ho chiesto l’autografo sulla carta d’identità: era il mio idolo”

Il racconto di Fabrizio Maiello al "Corriere": "Eravamo quattro latitanti su due macchine rubate e con le pistole addosso"

di Paolo Aruffo

Una storia incredibile, di quelle da leggere tutte d’un fiato. Di quelle da raccontare. E lo ha fatto la professoressa Franca Garreffa nel libro “Nel carcere dei matti delinquenti” e poi Luca Guardabascio, regista del docufilm “Senza Volto – storia di Fabrizio Maiello”. Il protagonista, è, appunto, Fabrizio Maiello, colui che provò a sequestrare Gianfranco Zola. Il calcio, la droga, il carcere, il manicomio, la rinascita. È lo stesso Maiello – che da pochissimo ha incontrato il noto ex calciatore sardo – a raccontare tutto al Corriere. “Sono riuscito a incontrarlo e ne sono felice, ma il libro non è solo Zola. Su di lui ci sono due paginette. Prima e dopo c’è molto altro”, ci tiene a sottolineare Maiello, 61 anni. Perché lui? E quali sono i dettagli di questa vicenda? Riavvolgiamo il nastro, ripartiamo dall’inizio. “Sono cresciuto dalle parti di Cesano Maderno. Non era una bella zona. Comasina, Quarto Oggiaro.. c’erano le bische, la banda di Vallanzasca, il clan dei catanesi”, ha esordito. Poi ha raccontato: “Amavo il pallone, lo portavo sotto le lenzuola. Da ragazzino mi ha tenuto lontano dalle cattive compagnie perché avevo un sogno, diventare un calciatore. Ero fissato, non bevevo, non fumavo [..] ‘Sei un grande, ti verremo a vedere a San Siro’, mi ripetevano alcuni di quei compagni che spesso finivano dietro le sbarre. Invece è finita che sono andato io a San Vittore da loro. [..] Durante un allenamento un compagno mi frana sul ginocchio. Saltano tutti i legamenti, un male atroce: ‘Possiamo intervenire, ma non pensare che potrai giocare a calcio come prima’, mi dicono i medici. Lì si spegne la luce. Non ci capisco più niente, rifiuto l’operazione e torno a casa con le stampelle e la gamba ancora viola. I miei genitori cercano di convincermi, ma non ne voglio sapere. Litighiamo: “O vai sotto i ferri o te ne vai da qui”, mi gridano disperati, nel tentativo di scuotermi. Io prendo ed esco di casa”.

L’INIZIO DELLA DISCESA – Da quel momento tutto cambia, purtroppo. Maiello frequenta sempre più cattive compagnie, fa uso di droga, sente che non ha nulla da perdere. Diventa un delinquente. Nel 1982 arriva il primo arresto. “Mi era stata data la pistola, dagli scippi ero passato alle rapine a mano armata. Un giorno ci ritroviamo nel nostro solito bar. A un certo punto sento il barista borbottare qualcosa, in pratica ci definiva dei criminali. “Ma come?”, mi sono detto. ‘Con tutti i soldi che gli diamo lui ci ringrazia così?’. La sera, col locale chiuso, gli sparo sulla vetrina come gesto intimidatorio. Nel tornare a casa incontro un mio amico a cui non dico niente: ‘Mi dai un passaggio in macchina?’. Qualche metro più avanti c’è un posto di blocco: ‘Non ti fermare, vai avanti che ho una pistola!’. Lui, spiazzato, esegue. I poliziotti sparano in aria, io mi affaccio dal finestrino e faccio lo stesso. Fuggiamo, ma avevano preso la targa. La mattina dopo ci arrestano entrambi. [..] Dopo quello sparo, i giudici mi hanno graziato. Solo che, una volta uscito, ho fatto sempre peggio. Minacce, estorsioni, guerre tra clan..”. Nel 1990 finisce in un ospedale psichiatrico: “C’ero finito nella speranza di poter prendere una scorciatoia, come facevano i mafiosi che, attraverso disturbi psichici simulati, chiedevano e ottenevano benefici di giustizia. In poche parole, per evitare l’ergastolo, bastava essere giudicati incapaci di intendere e di volere. Per riuscirci, durante una convalida di arresto, spaccai una sedia in testa al giudice”. Tutto si complica, ancora di più. “Venivamo imboccati per mangiare e bere. Non ci era permesso di alzarci neanche per andare in bagno, restavamo per dei giorni sdraiati sui nostri bisogni. Nudi, a fissare il soffitto e a contare le ore“, ha spiegato. E ancora ha aggiunto: “Stavamo guardando la tv e a un certo punto passa un sottotitolo che ci informa sulla strage di Capaci. Iniziano tutti a esultare, accanto a me c’erano Er Bufalo della Banda della Magliana, i fratelli Marchese e alcuni camorristi. Lì si accende la prima luce: ‘Perché sono qui? Io non sono come loro'”.

IL TENTATO SEQUESTRO DI ZOLA – Quindi il sequestro di Zola, che però non viene portato a termine: “Esco in licenza con l’apposita carta d’identità. Non avevo nessuno, mia moglie stava morendo. Decido di fuggire, divento latitante: ‘Vogliamo rapire Zola, così chiederemo un riscatto a Tanzi’, mi dicono. Ero titubante, amavo Zola, era il mio idolo. Ma avevo bisogno di soldi e quindi accettai. Ci infiliamo in due auto, il piano era di seguirlo in autostrada per poi speronarlo una volta usciti. Ma lì succede un imprevisto, perché Gianfranco si ferma al distributore. Addirittura esce e si ferma a parlare con il benzinaio. Non avevamo tempo, eravamo quattro latitanti su due macchine rubate e con le pistole addosso. Allora scendiamo, facciamo finta di niente, ci guardiamo intorno. Lui ci nota, ci viene incontro: ‘Ciao ragazzi, avete bisogno di qualcosa?’. Quel sorriso è stata la seconda luce che si è accesa dentro di me. Gli feci firmare un autografo sulla carta d’identità“.

IL NUOVO ARRESTO E POI LA RINASCITA – Quindi, nel 1995, nuovo arresto e nuovo ospedale psichiatrico: “La direttrice Valeria Calevro mi dà il permesso di allenarmi in occasione della maratona di Vivicittà organizzata dalla Uisp (Unione Italiana Sport per tutti). Io non volevo correre, non mi era mai interessato, quindi decido di seguire il percorso palleggiando. Mi danno un pallone e, nei 24 passi del cortile, inizio a stabilire i primi record. Erano anni che non toccavo una palla. Ma la svolta definitiva nel mio cammino di redenzione avviene grazie a Giovanni Marione, un altro internato finito lì perché, durante una discussione avuta per una sigaretta con un anziano, lo aveva spinto e questo, cadendo, era morto. Non aveva coscienza di cosa avesse fatto, non sapeva neanche dove si trovasse. [..] Era stato messo lì a morire, puzzava, si faceva i bisogni addosso e nessuno lo puliva, i detenuti invece di aiutarlo gli facevano i dispetti. Gli erano stati dati tre mesi di vita, non di più. Decisi di prendermene cura, notte e giorno. Lui continuava a vivere e io ogni anno battevo il record di palleggi. Sono rinato così”, le parole di Maiello. Grazie al suo amico ha conosciuto l’amore e una nuova vita. “Quando Giovanni è uscito, sono andato a trovarlo con un permesso. Con me c’era un’infermiera, Daniela. Era rimasta colpita dalla dedizione con cui mi ero preso cura di lui”, ha raccontato ancora Maiello, parlando di quella donna che gli ha fatto riscoprire l’amore. Adesso Fabrizio Maiello sta scrivendo un altro capitolo fatto di rinnovamento, di amore, di volontariato: “Sono un uomo libero, testimonial della legalità. Collaboro con l’associazione Libera di Reggio Emilia e racconto la mia storia nelle scuole. Ogni anno stabilisco nuovi record di palleggi con la UISP e sono entrato a far parte della Seleçao Sacerdoti di mister Moreno Buccianti. Insieme a lui e a Luca Galteri sto partecipando a diversi eventi di beneficenza per la Fondazione Airc per la Ricerca sul Cancro. L’ultimo è stato il giorno dell’Epifania, un torneo di footgolf sulla spiaggia di Alassio insieme ad alcuni ex calciatori. In un giorno abbiamo raccolto quasi 15mila euro”. Infine ha concluso: “Questa adesso è la mia Champions League“.

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