di Cristian Palusci

In 50 anni l’Italia è passata dallo sfidare la Gran Bretagna nel ruolo di quarta potenza mondiale in termini di Pil e benessere – ai tempi di giganti del calibro di Enrico Mattei – allo sprofondare ai livelli di un paese in via di sviluppo in termini di sperequazione sociale, con la classe media totalmente annientata dall’inflazione e ampie fasce di popolazione a ridosso della soglia di povertà. E il disastro in corso è dimostrato plasticamente nel grafico allegato, tratta da uno studio di Bloomberg, che mostra come nell’ultimo anno gli aumenti dei salari minimi nei paesi europei abbiano compensato abbondantemente l’inflazione… tranne in Italia, che infatti neanche compare nelle statistiche.

La verità è che il lento ma inesorabile declino del paese a cui assistiamo impotenti da anni, non è da attribuire all’euro, come troppo spesso sento ripetere a pappagallo, bensì dalla mancata indicizzazione delle retribuzioni all’inflazione.

Se negli ultimi 20 anni abbiamo avuto un’inflazione media del 2% all’anno (con picchi ben più alti nel 2022) e gli stipendi sono rimasti sostanzialmente fermi al palo, il calcolo della perdita di potere d’acquisto di famiglie e consumatori è piuttosto banale. E gli unici responsabili del disastro sono da ricercare tra gli appartenenti alla classe dirigente che hanno (s)governato il paese negli ultimi decenni, a cui chiaramente fa gioco che sprovveduti e disinformati diano la colpa di tutto all’euro, che è sicuramente un alibi perfetto. Ma l’Euro è la moneta anche di buona parte dei paesi elencati nello studio di Bloomberg di cui sopra.

E oltre al danno, dobbiamo subire anche la beffa dello “sbandieramento” a reti ed edicole unificate di politici e opinionisti che parlano senza vergogna di “crollo dell’inflazione”, senza sapere neanche cosa dicono. Infatti a oggi i prezzi sono sui livelli più alti di sempre e ci resteranno ancora a lungo, dato che l’unico scenario in grado di innescare la discesa concreta dei prezzi è quello di una deflazione, seguita ragionevolmente da una recessione economica.

L’unica cosa che sta calando nell’attuale contesto è il tasso di aumento annuale dell’inflazione: ciò significa che se nel 2022 abbiamo avuto un’inflazione dell’8.1%, nel 2023 è aumentata “solo” del 5,3% secondo le stime preliminari dell’Istat. Direi che è una magra consolazione. La prossima volta che sentite un politico o un opinionista parlare di “crollo dell’inflazione”, siete autorizzati a parafrasare il buon Antonio De Curtis, in arte Totò: “Ogni limite ha una decenza”.

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