Chi denuncia per motivi di giustizia va tutelato dallo Stato e risarcito dei danni subiti: è tempo di aprire una discussione pubblica su questo tema, altrimenti nel vuoto normativo continueranno ad essere commessi soprusi insopportabili.
Capisco che leggendo questo incipit qualcuno potrebbe stranirsi e pensare: ma perché, non accade già adesso così? La risposta è: accade così soltanto a certe condizioni molto stringenti, che lasciano fuori storie e persone meritevoli di maggior considerazione.
Ma andiamo con ordine. Dal 2018 l’ordinamento italiano dispone di una legge, la 6 dell’11 gennaio, che (finalmente!) definisce lo statuto giuridico del “Testimone di Giustizia”, prevedendo un ventaglio ampio di strumenti di natura economica finalizzati a risarcire il Testimone dei danni diretti e indiretti provocati dalla sua decisione di contribuire alla giustizia con il coraggio della denuncia. Conosco bene queste norme essendo stato l’estensore del progetto di Legge e poi il relatore in Aula: un progetto di Legge a prima firma Bindi, che rappresentò un momento alto di collaborazione tra tutte le forze politiche. Infatti il testo venne approvato all’unanimità.
C’è però una necessaria precisazione da fare. I “Testimoni di Giustizia” che abbiamo descritto nella normativa del 2018 (in continuità con quando previsto dalla legge N. 45 del 2001 e prima ancora da quanto si poteva dedurre dalle norme del ’91 sui collaboratori di giustizia) sono quei testimoni d’accusa che, in ragione delle loro dichiarazioni, si siano esposti a un rischio di rappresaglia criminale così concreto e grave da rendere inadeguate le normali misure di protezione disposte dalle Autorità di pubblica sicurezza e che per questo motivo debbano essere tutelati attraverso misure di protezione speciali, fino al più “blindato” tra tutti i dispositivi che è lo speciale programma di protezione (il quale prevede lo spostamento in località segreta, con cambio di generalità).
Le misure economiche introdotte dalla normativa diventano un necessario strumento risarcitorio, visto che un “testimone” protetto con queste modalità sopravvive quasi certamente alla rappresaglia criminale, ma altrettanto certamente ha la vita sconvolta. Chi certifica che il rischio di rappresaglia sia così concreto e grave? La magistratura titolare dell’azione penale a cui si riferisce la testimonianza. Punto. A capo.
Se la magistratura non certifica una condizione del genere? Non c’è accesso alle speciali misure di protezione e quindi non c’è accesso alle altrettanto speciali misure risarcitorie. Da quel momento del ragionamento ci si affaccia sul vuoto e sull’inadeguatezza dello Stato. Perché ci sono “testimoni” d’accusa importanti come Augusto Di Meo, testimone oculare dell’assassinio di don Peppe Diana, per i quali nessun magistrato ha mai certificato quella condizione di grave e concreto rischio di rappresaglia criminale, ma che in effetti hanno subito danni enormi sul piano della salute e sul piano professionale a causa dello stato di grave incertezza e timore prodotto dalla scelta, ribadita coraggiosamente in anni di vicende processuali, di puntare il dito contro il killer di don Diana. Lo Stato può girarsi dall’altra parte?
Ci sono “testimoni” d’accusa altrettanto importanti come i braccianti sfruttati nelle campagne italiane, che inchiodano con la loro denuncia il “padrone” criminale, che ha approfittato delle loro condizioni di vulnerabilità. Questi processi si stanno moltiplicando nel nostro Paese sia grazie al lavoro di sensibilizzazione e accompagnamento di attivisti “in campo” come Marco Omizzolo (autore di Per motivi di giustizia, ed. People), sia grazie al lavoro politico che portò alla riforma dell’art. 603 bis del Codice Penale, che ora sanziona seriamente tanto il “caporale” quanto il padrone che si avvalga della illecita intermediazione di manodopera, anche al di fuori del settore agricolo, come dimostrano diverse sentenze che riguardano la logistica (anche questa riforma l’abbiamo fatta nella XVII Leg.). Ma con quali strumenti economici lo Stato interviene per risarcire e integrare questi preziosi “testimoni d’accusa”? Nessuno.
Ci sono poi “testimoni” d’accusa che non stanno nelle Aule di Giustizia, ma che per puntare il dito e denunciare usano “carta e penna”: sono i giornalisti. Le inchieste giornalistiche che smascherano crimini di potere, come per esempio quella di Fabrizio Bertè, relativa ai presunti gravi abusi consumati nell’Ateneo messinese, non contribuiscono direttamente alla causa della giustizia? E quando questi giornalisti finiscono sotto il fuoco della rappresaglia attraverso le famigerate querele “bavaglio” cioè intimidatorie, non è forse compito dello Stato difenderli? E la stessa domanda non sarebbe giusto estenderla ai whistleblowers, il cui attuale pallido riconoscimento poco riesce a fare contro le più subdole pratiche punitive a cui quasi sempre questi italiani anomali (tanto che proprio non riusciamo a trovare un termine italiano per definirli) vengono sottoposti?
La politica non perda l’occasione per affermare che chi grida la verità sui tetti è un tesoro repubblicano e non un infame, come (ancora!) pensano i più.