Ho un senso di disagio che interpreto come vergogna. Una sensazione che può cogliere quando si assiste a qualcosa di osceno, qualcosa che non dovrebbe stare sulla scena. Non in un’aula di un tribunale. È un’emozione negativa che mi porto dentro, dopo aver letto quanto avvenuto tra le pareti del tribunale di Tempio Pausania, durante il processo per stupro che vede imputati Ciro Grillo, Edoardo Capita, Vittorio Lauria e Francesco Corsiglia. Se a novembre pensavamo di aver letto la pagina peggiore di quel processo per le domande invasive e degradanti rivolte alla donna che ha denunciato dalla legale degli imputati, ci sbagliavamo.

Annalisa Cuzzocrea, vicedirettrice de La Stampa, si è chiesta con scoramento in un commovente podcast che invito ad ascoltare, se sia possibile condurre un processo per violenza sessuale, accertare i fatti, garantire i diritti agli imputati mantenendo umanità e rispetto per la vittima. La cronaca di questo processo mi ha riportato nuovamente, dopo le polemiche del novembre 2023, al documentario trasmesso per Rai nel lontano 1978 e realizzato da Loredana Rotondo. Un lungometraggio che mise in evidenza come il processo agli stupratori fosse in realtà solo una prima cornice sulla scena del processo, all’interno del quale si celebrava un altro processo, quello vero, quello alla donna che aveva denunciato lo stupro. Così fu per Fiorella, così può accadere a molte donne che chiedono giustizia e precipitano in un processo kafkiano, sotto accusa insieme agli imputati. Sono trascorsi quarantasei anni dalla messa in onda sulla Rai di Processo per stupro e millequattrocento sono state le domande rivolte a Silvia (nome di fantasia), la giovane donna che ha testimoniato a Tempio Pausania in quattro giorni di udienza. Domande volte a far ripercorrere ancora, e ancora, e ancora, e ancora e ancora, ogni fase della testimonianza per un totale di diciassette ore di interrogatorio. Le è stato chiesto anche di simulare il gesto fatto da uno degli imputati la notte del 2019, quando avvennero i fatti oggetto del processo.

Un fuoco di fila che ha insistito sui motivi della mancanza di difesa, segno di consenso secondo i legali, sintomo di tanatosi e paura, secondo la psicologia del trauma. Una pressione che metterebbe in crisi chiunque fosse chiamato a testimoniare su un qualunque reato. Immaginiamo se quel reato ha deumanizzato e ha violato l’intimità della vittima.

Silvia è stata costretta a rispondere alla stessa implicita domanda, alla quale nessuna donna che denuncia uno stupro potrebbe rispondere: perché non hai evitato lo stupro?”, “perché non ti sei difesa?”. E lo ha dovuto fare decine di volte. Ne il Corpo Violato, Maurizio Stupiggia, psicoterapeuta, commenta la violenza sessuale di gruppo subìta dal protagonista del romanzo Il cacciatore di aquiloni di Khaled Hosseini:

“Una ferita può essere lenita curata, addirittura rimarginata…ma nell’abuso subito, ciò che viene leso è il senso profondo di sé, le propria fondamenta, quello che Hosseini chiama “reputazione”. Qui non si sta parlando dell’immagine sociale, di quella somma di giudizi collettivi che compongono l’abito esteriore di una persona ma della reputazione privata, intima del giudizio di sé davanti alla propria coscienza. Nell’abuso viene meno quella capacità di riconoscersi internamente, viene infranto quello specchio interiore che ci permette abitualmente di sentirci noi stessi, di percepire il nostro corpo e i nostri pensieri… in una parola di sentirsi a casa. E come se non bastasse, la vittima vive in senso di esposizione costante alla vista e alla azione altrui, come se ciò che si cela al proprio interno, il dramma vissuto fosse di pubblico dominio e aperto allo sguardo sociale”.

Questo è ciò che vivono sulla loro pelle le vittime di stupro, sottoporle alla richiesta reiterata di ripetere la testimonianza sulle violenze subite dieci, cento, mille volte non serve ad accertare la verità ma a rivittimizzarle. Accade e continua ad accadere.

I difensori hanno anche chiesto, e ottenuto, che in aula venisse mostrato il video fatto dagli imputati quella notte per poi sospendere la visione e decidere di vederlo in separata sede. Lei, protetta solo da un drappo per celarla alla vista dei difensori, diaframma fragile, ha scelto di uscire dall’aula in quel momento. La sua avvocata dice che sta male. Come potrebbe essere diversamente?

Le domande degli avvocati possono diventare un’ordalia e una prova di resistenza per la vittima? Testare la testimonianza può tradursi nello schiacciare la testimone per sottoporla ad una invasività che ne umilia la dignità? O stiamo solo assistendo ad una reiterazione del trauma? Sento vergogna perché qualcuno la deve provare.

Sento vergogna per un sistema giudiziario dove non esiste sufficiente vergogna per ciò che ancora riesce a produrre.

@nadiesdaa

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