Per tutti era il “Professore” o semplicemente “Prof”. Lui amava la definizione di “Soprintendente d’Italia“. E un po’ lo è stato davvero quando, tra il gennaio 1995 e il maggio 1996, fu chiamato da Lamberto Dini a ricoprire la carica di ministro per i Beni culturali e ambientali. Antonio Paolucci ci ha lasciati ieri, nel tardo pomeriggio, a 84 anni. Era nato a Rimini il 29 settembre 1939, “lo stesso giorno di Berlusconi – amava dire scherzando, e aggiungeva – ma io sono più giovane di lui di tre anni”.
Si era laureato in storia dell’arte nel 1964 con Roberto Longhi e cinque anni più tardi iniziò la sua carriera nell’ambito del ministero della Pubblica Istruzione (che fino al 1975 si occupava anche di beni culturali), avvicinandosi al mondo delle soprintendenze. Fu soprintendente a Venezia, poi a Verona, a Mantova e infine a Firenze, dove si occupò prima dell’Opificio delle Pietre Dure, per poi passare alla soprintendenza ai Beni Artistici e Storici (diventata poi soprintendenza speciale per il Polo Museale Fiorentino) ed essere nominato anche direttore regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Toscana sino al collocamento a riposo per raggiunti limiti d’età, avvenuto nel 2006. L’anno seguente Papa Benedetto XVI lo chiamò a dirigere i Musei Vaticani, incarico che mantenne fino alla fine del 2016. “Con la scomparsa di Antonio Paolucci – dichiara il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano – L’Italia perde un uomo di cultura appassionato e rigoroso, un instancabile studioso che ha dedicato la sua vita alla tutela, alla promozione e alla valorizzazione del nostro patrimonio artistico e culturale”. L’ultimo saluto a Paolucci sarà alla Cappella di San Luca della Basilica della Santissima Annunziata a Firenze oggi dalle 17 alle 19 e domani mattina dalle 9 alle 13; le esequie si terranno nella stessa Basilica domani 6 febbraio alle 15.30.
“Per me e per tanti di noi Antonio Paolucci è stato un maestro, non solo nel campo dei beni culturali, ma anche, con la sua umanità cordiale e curiosa, nella vita” ricorda Cristina Acidini, ex soprintendente del Polo Museale Fiorentino che sostituì Paolucci nel 1995 quando divenne ministro e poi gli successe nel 2006. “Da ministro – ricorda Acidini parlando all’agenzia Ansa – è stato decisivo e ha lasciato un’impronta profonda: ha introdotto una visione nuova e molto aggiornata della fruizione dei beni culturali ed ha sempre sostenuto l’importanza dell’idea del museo diffuso. Era un grande appassionato di arte dagli oggetti più umili ai grandi capolavori. Ha svolto tutti i suoi ruoli con grande passione e immensa competenza. Quando sono arrivata al polo fiorentino ho trovato una strutturale già pienamente operativa, fu introdotto un concetto molto funzionale perché l’unità del sistema museale consentiva un grande equilibrio, permetteva di governarlo come una grande famiglia. Paolucci ha sempre avuto una visione lucida ed efficace del patrimonio artistico e culturale. Da sottolineare che tra i suoi più grandi risultati come ministro dei Beni Culturali del governo di Lamberto Dini vi è l’acquisizione dell’eredità dell’antiquario Stefano Bardini che era in abbandono totale. Paolucci riuscì a sbloccare questa questione e fu un risultato importantissimo, una sua grande vittoria”.
Con Paolucci soprintendente a Firenze si inaugurò una stagione di grandi cambiamenti nei beni culturali, fino ad allora ritenuti più da conservare che da valorizzare, e proprio alla sua grandissima capacità divulgativa – diffusa attraverso saggi che avevano “il tono leggero del reportage giornalistico e l’appassionata verità della testimonianza diretta” si diceva all’epoca – si deve la crescita della conoscenza e dell’amore verso l’arte e, più in generale, verso la cultura. Perché solo chi ha lavorato sul territorio, non tanto nei musei dove i beni culturali sono più protetti e facilmente ammirati, può arrivare a concepire il concetto di “museo diffuso”, dove ogni chiesetta, tabernacolo, scultura, reliquia etc.. è un oggetto da conoscere, catalogare, tutelare e ammirare, come perfino le piazzole di un campeggio estivo che per lui diventavano un “tipico esempio di architettura spontanea”. Paolucci amava scrivere – lo faceva anche su alcune delle pagine più autorevoli dell’editoria nazionale (Sole 24 Ore, Repubblica, Nazione e Avvenire) – ma era contesissimo anche dalle tv di mezzo mondo che vedevano in lui la persona giusta per raccontare l’arte, a tal punto che qualcuno aveva azzardato la proporzione secondo cui Antonio Paolucci stava all’arte, come Piero Angela alla scienza e alla tecnologia.
Paolucci aveva una capacità dialettica non comune e faceva risultare semplice anche la più difficile delle spiegazioni sui tanti “perché” dell’arte. In tal senso oggi assume un valore particolare un volume – dal titolo Governare l’arte – Scritti per Antonio Paolucci dalle soprintendenze fiorentine – in cui 59 funzionari del “soprintendente d’Italia”, due anni dopo il suo pensionamento, raccontarono le loro esperienze di collaborazione con Paolucci, evidenziando come il suo costante intervento di indirizzo e di stimolo fosse stato utile per il raggiungimento di tanti risultati positivi.
Paolucci è sempre stato ben cosciente del ruolo anche politico della sua azione: diceva sempre che a Firenze la sua poltrona era la più importante della città dopo quella del sindaco e proprio nel luogo dove aveva scelto di risiedere ha contribuito a rendere funzionante il Polo Museale Fiorentino, un insieme di una trentina di musei dove anche le ville medicee e i piccoli cenacoli avevano pari dignità dei grandi musei (erano parte integrante del Polo anche gli Uffizi e la Galleria dell’Accademia, ancora oggi i due musei più visitati d’Italia) e laddove lo Stato non riusciva a garantire certi servizi essenziali, intervenivano i privati, nell’ambito di un rapporto virtuoso che alla fine giovava a tutti.
Col senno del poi, possiamo solo rallegrarci del fatto che al momento dell’entrata in vigore della Riforma Franceschini (luglio 2014), che di fatto spacchettò i poli museali, lui era già in pensione da quasi 8 anni e dirigeva felicemente i Musei Vaticani: almeno si è risparmiato di vivere da vicino la fine di un’era che l’aveva visto protagonista. A chi gli chiedeva quale fosse il successo in carriera di cui andasse più fiero, senza indugio rispondeva il restauro della Basilica superiore di San Francesco ad Assisi, dopo il sisma del 27 settembre 1997, con il crollo della volta giottesca.
Ma ognuno di coloro che l’hanno conosciuto vanta dei ricordi personali del suo modo così affabile di trasmettere l’immenso sapere che possedeva. Capitava spesso che le sue conferenze stampa – quando era soprintendente – si trasformassero in vere e proprie lezioni di storia dell’arte e allora poteva argomentare che, nello splendido dipinto denominato Madonna del Magnificat agli Uffizi, “se guardi bene i due angeli che posano la corona, che poi è Dio, sulla testa della Vergine, vedrai che le loro dita non toccano la corona, perché nessuno può toccare Dio e Sandro Botticelli questo lo sapeva bene”. O ancora illustrando L’Adorazione dei Magi di Gentile da Fabriano, richiamava l’attenzione sulla predella centrale, raffigurante “La fuga dall’Egitto”, e in particolare su un castello costruito in cima a una collina, parzialmente velato da delle nuvole basse: “La vedete? Questa immagine rappresenta l’invenzione della nebbia in pittura, mai nessuno prima di Gentile l’aveva dipinta. Ed è la nebbia che lui conosceva perché l’aveva vista tante volte sulle colline di Fabriano, nelle Marche, dove egli era nato”.
Paolucci aveva il dono di far appassionare anche i meno esperti agli aspetti più insoliti dell’arte, ai dettagli a prima vista più insignificanti se non addirittura pressoché invisibili. Come dire che molti guardano un quadro, ma pochi sanno davvero “vederlo” e addirittura “spiegarlo”. Ecco, Paolucci era tra i pochi a esserne capace. In occasione dell’avvio del “Progetto Medici”, nel 2004, che prevedeva la riesumazione di 48 individui della dinastia alle Cappelle Medicee, Paolucci in uno scritto sottolineò che “gli uomini (anche i Granduchi) sono mortali, la Bellezza è per sempre”. Grazie di tutto, prof.