Anche il Senegal piomba nell’incertezza. Trema una delle democrazie considerate fra più solide dell’Africa Occidentale dopo il rinvio delle elezioni presidenziali che erano previste per il 25 febbraio. È la prima volta dal 1963 che il Senegal, uno dei pochi paesi africani a non aver mai subito un colpo di Stato, rinvia le elezioni presidenziali. Domenica notte il governo di Dakar ha anche sospeso l’accesso a internet “per impedire la diffusione di messaggi di odio” sui social network. Una situazione che allarma: anche Antonio Guterres, per bocca del suo portavoce Stephane Dujarric, si è pronunciato auspicando l’astensione “dalla violenza e da qualsiasi azione che possa minare il processo democratico e la stabilità”, “in linea con la lunga tradizione di governo democratico del Senegal”. A Washington il portavoce del Dipartimento di Stato, Vedant Patel, si è detto “profondamente preoccupato”: “Il Senegal ha una forte tradizione di democrazia e di transizione pacifica del potere. Pur riconoscendo le accuse di irregolarità, siamo preoccupati per l’interruzione delle elezioni presidenziali”.
I fatti – La situazione è precipitata il 2 febbraio quando il presidente Macky Sall, in carica da 12 anni ha annunciato il rinvio sine die del voto. Alle fortissime proteste dell’opposizione e alle manifestazioni di piazza, il governo ha reagito con un’ondata di arresti: 52 persone fermate domenica e altre 99 ieri. E proprio ieri sera il parlamento ha approvato “all’unanimità” il rinvio delle elezioni, fissando la nuova data al 15 dicembre, ma ciò è avvenuto solo dopo che la polizia in assetto antisommossa aveva espulso i deputati contrari. Un’immagine terribile per la democrazia senegalese: alle 22.30 i parlamentari dell’opposizione sono stati scortati fuori dall’Assemblea nazionale manu militari e soltanto dopo, con 104 voti favorevoli, è stata approvata la legge per il rinvio a dicembre delle presidenziali. Il disegno di legge era stato presentato con procedura d’urgenza il 2 febbraio dal gruppo parlamentare vicino al candidato Karim Wade, figlio dell’ex presidente Abdoulaye Wade, e chiedeva il rinvio dal 25 febbraio al 25 agosto. Data che il parlamento ha ora ulteriormente fatto slittare a dicembre. Motivo della richiesta: la candidatura di Karim Wade alla presidenza era stata respinta dal Consiglio costituzionale. Per questo i deputati del Partito democratico senegalese (PDS) di Wade denunciavano “gravi e ricorrenti disfunzioni nel processo elettorale”, tali secondo loro da giustificare la richiesta di rinvio, parlando di “crisi istituzionale che potrebbe mettere in discussione la democrazia senegalese, l’integrità del processo elettorale e il carattere trasparente e inclusivo delle elezioni presidenziali”. La maggioranza dei gruppi di opposizione ha tuttavia respinto la proposta di rinvio, descrivendo la decisione del presidente come un “colpo di stato costituzionale”. In risposta, il PDS ha accusato alcuni membri di corruzione. Una situazione esplosiva che ha portato la gente in piazza a protestare con lo slogan “Macky Sall dittatore“, prontamente dispersa dalla polizia con gas lacrimogeni. È in questo contesto che sono sopravvenuti gli arresti di massa, la sospensione di internet per “motivi di sicurezza” e anche la sospensione di un canale televisivo con l’accusa di “incitamento alla violenza”.
Il pregresso – Come detto, all’origine dello slittamento del voto ci sono Karim Wade e il suo partito, il PDS. Il rigetto della sua candidatura da parte del Consiglio costituzionale è giunto perché Wade avrebbe mentito sul fatto di non avere più, al momento della sua dichiarazione giurata, la nazionalità francese: l’articolo 28 della Costituzione afferma infatti che i candidati alla presidenza devono avere esclusivamente la nazionalità senegalese. Wade, nato in Francia da madre francese, era già incappato in questa problematica nel 2019, quando per candidarsi alle precedenti elezioni aveva presentato un’ “attestazione sull’onore” in cui sosteneva di aver rinunciato alla nazionalità francese. Documento contestato dai rivali. Una controversia che gli aveva dato modo di atteggiarsi a vittima di un complotto. Ora la questione è stata sollevata di nuovo da un candidato rivale e la rivista Jeune Afrique ha facilmente dimostrato che Wade aveva ancora la nazionalità francese al momento della presentazione delle candidature, poiché a quella data risultava registrato nell’anagrafe elettorale francese. Wade, che fra l’altro dal giugno 2016 risiede a Doha, in Qatar, nel 2015 era anche stato condannato a sei anni di carcere e a 138 miliardi di franchi CFA di multa per “arricchimento illecito”, pena da cui fu graziato un anno dopo. Un passato non proprio esemplare. Tuttavia, il presidente Sall ha deciso di appoggiare le sue rivendicazioni, ufficialmente per “avviare un dialogo nazionale aperto al fine di riunire le condizioni per elezioni libere, trasparenti e inclusive”, in realtà probabilmente per suoi complicati calcoli elettorali.
I retroscena – A chi giova il caos? Secondo il quotidiano senegalese WalfQuotidien, nella vicenda giocherebbe un “ruolo oscuro” la Francia: “I senegalesi vogliono che il primo ministro francese, Gabriel Attal, spieghi loro come ha potuto firmare così rapidamente il documento di rinuncia alla nazionalità francese di Karim Wade (…). Ha subito pressioni da Dakar? Qual è stato il ruolo del console francese in Qatar che ha avviato la pratica? La Francia avrebbe paura di Ousmane Sonko, il favorito del popolo? Cosa c’è dietro questo attivismo francese?” E prosegue netto: “I nostri cugini francesi non possono essere estranei a ciò che sta accadendo attualmente in Senegal, uno dei loro ultimi bastioni in Africa insieme alla Costa d’Avorio. Questo, dopo quello che è successo ai nostri vicini maliani, burkinabè e nigerini.” Commenta Le Monde Afrique: “Che il faro della democrazia nella regione dia un segnale del genere non può che preoccupare per la sostenibilità del “modello senegalese”, imperfetto ma vivo. E per la gioia dei militari che, nei paesi vicini, scelgono di restare al potere senza preoccuparsi delle elezioni.”