L’Italia è il Paese Ue in cui, anche quest’anno, gli stipendi dei lavoratori deboli sono destinati a languire di più. Mentre nel resto dell’Unione gli occupati meno pagati otterranno aumenti corposi, nella Penisola chi fatica ad arrivare a fine mese non riuscirà nemmeno recuperare il potere d’acquisto perso a causa della fiammata dell’inflazione. A dirlo è un’analisi di Eurofound, l’agenzia dell’Unione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, che a fine gennaio ha fatto il punto sull’aggiornamento dei salari minimi nei 22 Stati che li hanno adottati e sui risultati della contrattazione collettiva negli altri. Il governo Meloni dal canto suo continua a rivendicare il buon andamento dell’occupazione ma ignora l’emergenza del lavoro povero e lo scorso anno, dopo aver bocciato la proposta unitaria di Pd, M5s e Avs sul salario minimo, si è preso sei mesi per attuare una delega sui “trattamenti retributivi giusti e equi”. Nel frattempo l’Istat ha rilevato che nel 2023 le retribuzioni orarie sono cresciute in media solo del 3,2% dell’industria e dell’1,4% nei servizi contro il +5,9% dei prezzi al consumo.
Nel 2024 l’inversione di tendenza – “Per i lavoratori con salario minimo il vento sta cambiando”, annota nell’introduzione Christine Aumayr-Pintar, senior research manager della fondazione. Dopo un 2023 in cui il valore reale delle retribuzioni non ha tenuto il passo con la salita dei prezzi registrata a partire dal 2021, il 2024 si preannuncia come l’anno della svolta. Cosa è successo? Da un lato le parti sociali che in molti Paesi stabiliscono l’adeguamento dei minimi legali “ne hanno fatto una questione prioritaria”, dall’altro ha iniziato a farsi sentire l’impatto della direttiva europea sui salari minimi, da recepire entro novembre. Che come è noto non impone di introdurre un minimo legale, ma fissa alcuni parametri per valutare l’adeguatezza delle cifre e chiede agli Stati senza minimi di misurare la copertura della contrattazione collettiva e monitorare il livello dei salari dei lavoratori coperti e di quelli non coperti dai ccnl.
Salari minimi in forte aumento – Il risultato è che nell’Est Europa e nei Paesi baltici sono stati decisi in molti casi aumenti a doppia cifra (+20% in Croazia, +19,6% in Bulgaria, +15% in Ungheria, +13,1% in Estonia, +10% in Romania, vedi tabella sotto), fino a quattro volte l’inflazione. In Polonia, dove a fissare il salario legale è il governo, il minimo mensile scattato dall’1 gennaio è più alto del 21,5% rispetto a quello in vigore un anno prima, a fronte di un’inflazione annua del 6,2%. In governo sloveno si è invece limitato a concedere un +4,2%, comunque pari all’evoluzione dei prezzi al consumo. La Low pay commission irlandese ha optato per un +12,4% ed entro il 2026, su raccomandazione del governo, dovrà far salire il minimo al 60% del salario mediano. In Belgio, Francia e Lussemburgo, dove le rivalutazioni scattano in automatico sulla base dell’andamento dei prezzi, i ritocchi sono stati più contenuti ma nel primo e nel terzo caso comunque superiori all’inflazione e in quello francese solo lievemente inferiori. In una Germania finita in recessione, la Commissione sul salario minimo si è spaccata perché i sindacati hanno giudicato insufficiente il 3,4% di incremento, 0,4 punti sotto l’inflazione. In Spagna è successo il contrario, con il governo che ha dato via libera a un +5% ascoltando le richieste dei rappresentanti dei lavoratori, nonostante le resistenze delle imprese.
Nei Paesi nordici contrattazione forte… – Poi ci sono i Paesi senza salario minimo: Svezia, Finlandia, Danimarca, Austria. E Italia. La contrattazione collettiva nel 2023 “non è stata facile”, riassume Aumayr-Pintar, ma nei Paesi nordici “sono stati alla fine raggiunti accordi che spesso includevano aumenti più elevati per i lavoratori a basso reddito rispetto a quelli più in alto nella scala salariale”. Per esempio, la Banca Nazionale Danese prevede che tra 2023 e 2024 si registrerà un +9,9% e in Svezia i sindacati dell’industria hanno concordato con le imprese aumenti del 4,1% il primo anno e 3,3% il secondo. Mentre in Finlandia sono arrivate indennità una tantum a partire da 400 euro l’anno.
…in Italia no – E in Italia? “La situazione è diversa, poiché l’alto tasso di inflazione non si è riflesso nei risultati della contrattazione collettiva”. Nel 2022, con l’indice Ipca dei prezzi al consumo salito dell’8,7%, “i salari sono cresciuti solo del 2%“. Del resto “i contratti di 7,7 milioni di lavoratori nel settore privato sono scaduti, portando a riduzioni dei salari reali”. Nel 2023 gli stipendi, in termini reali, sono scesi del 2,8%. Ci sono eccezioni: metalmeccanici hanno ottenuto un incremento retributivo del 6,6% grazie alla clausola di garanzia prevista dal rinnovo del 2021 e i bancari hanno firmato un nuovo contratto con aumenti medi mensili importanti (435 euro). Ma per milioni di lavoratori dei servizi e del terziario, più soggetti al part time involontario, al precariato e alla povertà lavorativa, poco è cambiato. Tra commercio, grande distribuzione organizzata, turismo, ristorazione e cultura sono dodici i contratti nazionali scaduti da anni. Federdistribuzione, Confcommercio, Federturismo e le altre parti datoriali ritengono proibitivo adeguare i salari all’indice Ipca, come prevede l’accordo quadro del 2009. I sindacati non riescono a smuoverle, la ministra Maria Elvira Calderone continue a predicare che occorre sostenere la contrattazione ma non interviene. Andare avanti così è però un rischio anche per il governo: la stagnazione dei redditi reali non è un buon viatico per aiutare una crescita già stentata.