“A me preoccupa moltissimo la legge Cartabia: nel 2025, da gennaio, non potremmo più parlare di persone che sono al centro di procedimenti penali fino a che non finisce il processo e neanche dei reati che ci sono dentro per descriverli con i dettagli”. Così, in uno stralcio del suo intervento, ha ammesso il giornalista Sigfrido Ranucci durante la trasmissione Otto e mezzo di Lilli Gruber di lunedì 5 febbraio 2024.

È difficile per un comune cittadino comprendere perché la legge bavaglio può danneggiare le vittime. Due esempi aiutano forse a capire quanto il nuovo dispositivo possa, limitando la libertà di stampa, danneggiare anche quante, ad esempio, subiscono stupri, maltrattamenti e, addirittura, anche le vittime di femminicidio.

Partiamo da Alberto Genovese e Antonio Di Fazio.

In comune questi due “signori della Milano che conta” hanno che si divertivano – somministrando l’uno la cosiddetta droga dello stupro e l’altro droghe – a trasformare le loro vittime in bambole incapaci di qualsiasi espressione di volontà contraria a ciò che questi “signori” praticavano con il loro corpo.

Dopo che queste vicende sono state rese pubbliche, si sono moltiplicate le querele di giovani donne che dopo una serata, pur non ricordando nulla, avevano la riprova di aver subito una violenza.

La narrazione dei casi giudiziari Genovese e Di Fazio hanno quindi, con molta probabilità, convinto le donne a denunciare; a non avere paura di non essere credute ma, al contrario, a far emergere una realtà che sta diventando fin troppo frequente. Denunciare, essere ascoltate, credute e creare quindi una opinione pubblica in merito.

Ora però spostiamo lo sguardo sull’articolo 21 della Costituzione che sancisce come la libertà di stampa rappresenti una condizione imprescindibile di democrazia.

Torniamo alla legge bavaglio: in campo giudiziario lo strumento che permette ai giornalisti di leggere, conoscere e diffondere casi come Genovese e Di Fazio è la “misura cautelare”; disposta dal Giudice competente su richiesta del Pubblico Ministero. Nelle pagine di questo provvedimento – di natura provvisoria ma immediatamente esecutivo – sono presenti tutti gli elementi sulla base dei quali si fonda la richiesta del pm oltre, naturalmente, agli elementi a favore dell’imputato.

Ma la misura cautelare svolge anche la funzione di essere una sorta di canale per individuare eventuali altre vittime di questi soggetti violenti, nella maggior parte dei casi carnefici “seriali”.

Il giornalista che può leggere la misura cautelare può scrivere di questi casi, può dunque rendere pubblico – sempre nel rispetto – come sono stati perpetrati questi delitti. Sintetizzando: la narrazione è di fatto qualcosa di interesse pubblico.

È stato scritto che “senza la libera informazione d’inchiesta nessuna donna si sarebbe mai riconosciuta come vittima e le indagini non avrebbero avuto quel ‘plot’ che hanno portato all’arresto di Genovese e Di Fazio”. Abbiamo ripetuto e scritto che il femminicidio di Giulia Cecchettin ha scosso l’opinione pubblica: le parole della sorella hanno sbattuto in faccia a tutti che esiste un problema anche di sensibilizzazione sulla violenza contro le donne e gli ultimi dati diffusi parlano di un raddoppio delle chiamate al numero antiviolenza 1522.

Ragazze e giovani donne in condizioni di violenza psicologica o fisica escono allo scoperto ma, prima ancora, sembra prendano consapevolezza che stanno vivendo una relazione affettiva/sentimentale nociva che può addirittura diventare pericolosa. La sensibilizzazione passa necessariamente anche dal rendere noto e diffondere ciò che è accaduto: dalla libertà di un giornalista di studiare le carte e dunque scriverne o parlarne. La legge bavaglio cancella tutto ciò.

e.reguitti@ilfattoquotidiano.it

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