Direzione Sanremo. Giovanni Allevi commuove i fan su Instagram mentre si materializza la sua presenza al festival. Un paio di stories sulle note dei suoi Tomorrow e Secret love ed eccolo arrivare in auto nella città dei fiori. Nessuna parola, tanti tasti neri e bianchi che si raccolgono nel suo tocco “minimalista e accattivante”, due anni di assenza che volano via in un paio di accordi. Il mieloma multiplo che l’ha allontanato dalla musica, dai live e dall’affetto dei suoi ammiratori, per due anni sarà, anzi è, in questi istanti al centro di un monologo. Pianoforte e parole, pianoforte e parole sul palco di Sanremo made in Amadeus dove i generi si mescolano e i linguaggi si fondono. Allevi del resto ha costruito la sua immagine attraverso una presenza diretta emotiva, spesso senza troppi filtri, gioviale e in certi momenti persino bambinesca.
Anticonformista nel presentarsi, ma soprattutto nel suonare lo è stato fin da subito Allevi, surfando trasversalmente rispetto ai canoni di un ambiente, come quello della classica, molto impettito, monolitico, finanche intransigente. Lui che portò le sue composizioni al clan di Jovanotti su consiglio di Saturnino, si è sempre definito “musicista di classica contemporanea” e con questo è arrivato perfino a suonare al Senato nel 2008 per il concerto di Natale. Lui ci mette una passionale fisicità benignesca, mentre altri lo demoliscono ancora prima che inizi a suonare.
Chi parla di “musica di intrattenimento alla Clayderman”, chi dice che è un “buon pianista ma un orchestratore troppo elementare”, chi infine lo paragona ad un epigono di Ludovico Einaudi. Eppure Allevi è diventato un marchio pop nel contesto italiano ed europeo con una ventina di album tra studio, raccolte e live in vent’anni di attività. L’apice è Joy, l’album del 2007 con oltre 200mila copie vendute che diventa emblema simbolico del pianista che raggiunge il successo ma che vive da quando è nato con attacchi di panico paralizzanti e continui.
“Ho paura di tutto”, confessò in una intervista non molto tempo fa. Segno di una socialità complicata e di un’ipocondria conclamata tipica del guscio da cui nascono spesso figure geniali. “Per me la solitudine è sempre una salvezza, in una società conformista che tende a renderci tutti uguali e ad azzerare le differenze. Nella mia esperienza di compositore, è dalla solitudine, dal silenzio, dalla lentezza che nascono le idee musicali più originali”. Prima ateo convinto, poi cristiano cattolico, Allevi ha inseguito la “fede in una scintilla divina” facendo della “sua vita una missione”. 54enne ascolano, diploma pianistico prima al Morlacchi di Perugia poi al Verdi di Milano, Allevi ha alternato sperimentazioni quasi jazzistiche fino alla coralità della direzione di orchestre sinfoniche.
Nel 2021 dichiarò di aver provato una sorta di estasi mistica, o di sindrome di Stendhal, di fronte alla statua di Santa Teresa d’Avila del Bernini a Roma: “Ho avvertito un forte capogiro, il respiro che mi mancava e poi mentre tornavo in hotel ripensando a quel momento ho imboccato una strada in discesa ma già sentivo quasi di non toccare terra… Sono svenuto e l’ultima immagine che ricordo è quella di una giovane donna che sul marciapiede mi ha chiesto l’elemosina in inglese”.