L’antiquata idea, della quale è arciconvinta il nostro Presidente del Consiglio dei Ministri, Giorgia Meloni, secondo la quale, come affermava il Portalis (l’incaricato da Napoleone di scrivere il borghesissimo codice civile francese del 1804), “l’impero va al Sovrano e la proprietà ai privati”, ha ricevuto in questi giorni la più clamorosa smentita: la Stellantis, una volta Fiat, che aveva fruito di miliardi di aiuti dallo Stato italiano e poi si è trasferita in Olanda, dove da tempo paga le tasse (alla pari di moltissime industrie private italiane), ha suggerito al nostro governo di dare un “incentivo” agli italiani che comprano più auto elettriche, facendo intendere che, altrimenti, essa avrebbe dovuto chiudere le sue tre industrie che producono nel nostro Paese.

Una inopportuna ingerenza nella nostra politica economica, che si è potuta verificare soltanto perché nel dominante cinismo mercantilista non merita rispetto chi, come noi, si è svenduto per pochi soldi, e a seguito di liberalizzazioni e privatizzazioni, l’immenso capitale industriale che le generazioni del secondo dopoguerra erano riuscite ad accumulare.

Di fronte a un simile invito, Meloni è apparsa basita e stupita, e ha risposto, in ossequio alle teorie neocapitalistiche nelle quali fermamente crede, che ogni impresa deve agire secondo le regole della “concorrenza” e non può dare consigli a uno Stato estero per favorire la propria produzione.

Sulla stessa linea si pone il Ministro del made in Italy, Urso, il quale ha posto in evidenza quanto sia illogico concedere incentivi a industrie automobilistiche straniere, che costruiscono in Italia, con manodopera italiana, e poi vendono le auto prodotte, come se provenissero dall’estero, agli stessi italiani. Tanto varrebbe che l’Italia entrasse nel capitale sociale della Stellantis, magari con una minima quota del capitale.

Su tutt’altro fronte si pone il Ministro delle finanze Giorgetti, il quale invita l’Unione Europea a cambiare approccio, altrimenti tra una decina di anni le automobili saranno prodotte da Cina e India.

Insomma, sfugge a tutti che la causa di tutti i mali sta nel fatto che il pensiero unico dominante del neoliberismo ha cambiato il concetto stesso dell’economia, che da “economia dello scambio” è diventata “economia della concorrenza”, in base alla quale chi vince prende tutto e chi perde non ha altra via se non quella di uscire dal mercato.

In base a questa concezione dell’economia è oltre modo chiaro che l’imprenditore, per vincere la concorrenza, deve innanzitutto diminuire i costi; che tra questi il costo più elevato da abbassare è la retribuzione dei lavoratori; che la diminuzione delle retribuzioni riduce la moneta in circolazione; che tale riduzione restringe l’area degli acquirenti; che questo restringimento distoglie gli imprenditore dagli investimenti, che la riduzione degli investimenti deprime lo sviluppo; che tale depressione distrugge “lo stato collettivo di benessere”, che, solo, può indurre gli imprenditori privati a investire. Così il circolo si chiude e la prospettiva è solo quella di un generale impoverimento.

Ci potremmo salvare se fossimo capaci di far rivivere il nostro grande patrimonio industriale, gestito da aziende pubbliche fuori commercio (e esenti da fallimento), in modo da far rivivere la nostra gloriosa “economia mista”, peraltro sancita, nel quadro di una “eguaglianza economica e sociale”, dagli articoli 41, 42 e 43 della vigente Costituzione. Ma le menti di tutti sembrano ottenebrate, indifferenti e irreparabilmente ingannate dalla propaganda neoliberista.

E, d’altro canto, il governo in carica dà chiari segni di non voler riconoscere queste vigenti disposizioni costituzionali e dar vita a una nuova Costituzione tutta protesa alla realizzazione di una sostanziale ingiustizia economico-sociale, spingendo tutti verso un irreversibile e fatale declino.

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