Gli scioperi funzionano? Consentono ai lavoratori di migliorare i loro stipendi e le loro condizioni di lavoro? La risposta che arriva dagli Stati Uniti è inequivocabile: assolutamente sì. Il 2023 è stato un anno eccezionale per le mobilitazioni dei lavoratori americani. Ad incrociare le braccia sono state oltre mezzo milione di persone e il numero di scioperi ufficialmente censiti (ossia con almeno mille partecipanti) è raddoppiato rispetto al 2022, anno che aveva già registrato un raddoppio sul 2021 e ai grandi scioperi si è aggiunta una miriade di mobilitazioni più circoscritte. La sindacalizzazione si sta facendo strada, anche in fortini fino a qualche tempo fa inespugnabili come Amazon o Starbucks. Ciò accade a dispetto di contromosse messe in campo dalle controparti aziendali che non di rado fanno ricorso ad interventi illegali.

E la popolarità dei sindacati sale, si riporta su valori che non si vedevano dagli anni ’60. Gran parte della popolazione sostiene le lotte dei lavoratori. Quella dei dipendenti dell’industria automobilistica ha raccolto le simpatie del 78% degli americani, quella di attori e sceneggiatori cinematografici del 76%. Il ritrovato attivismo dei sindacati è frutto di un profondo rinnovamento delle strutture direttive che ha portato in prima linea sindacalisti più giovani e determinati e non invischiati con opache vicende del passato. Come ad esempio quella di corruzione di cui fu protagonista la Chrysler di Sergio Marchionne.

Dati e i casistiche messe in fila dal network sindacale Labor Notes, permettono di tracciare un bilancio delle mobilitazioni 2023. Una premessa: al di là dei casi specifici, nel corso del 2023, i salari statunitensi sono saliti in media di quasi il 3% al netto dell’inflazione. Il numero di occupati è cresciuto, viceversa l’inflazione è diminuita dal 6,5 al 3,2%, smussando quel rischio di “spirale prezzi – salari” che terrorizza imprenditori e banche centrali (che utilizzano proprio la pressione al ribasso sui salari per abbassare l’inflazione). Sinora la spirale è stata solo tra prezzi al consumo e profitti aziendali, i lavoratori stanno solo cercando di ottenere con più determinazione una fetta della torta.

Tre le grandi mobilitazioni che hanno caratterizzato l’anno, quella dei lavoratori dell’auto, quella di Hollywood e quella di autisti e fattorini Ups. Quest’ultima iniziativa ha coinvolto 340mila dipendenti del colosso della logistica e ha permesso di strappare un rinnovo contrattuale che destina ai lavoratori 30 miliardi di dollari in più rispetto all’accordo precedente. La paga oraria è stata da subito alzata da 15,5 dollari l’ora ad oltre 18, con la prospettiva di salire a circa 23 dollari nei prossimi 5 anni. Inoltre è stata eliminata la separazione degli autisti in due categorie con la seconda, di neo assunti, caratterizzata da retribuzioni più basse. Il nuovo contratto prevede inoltre l’eliminazione delle telecamere installate sui mezzi per controllare il conducente. La società, va detto, ha poi servito fredda la sua piccola vendetta. In gennaio ha annunciato 12mila licenziamenti a causa dei deludenti risultati di fine 2023 adducendo come giustificazione anche la maggiore onerosità del nuovo contratto. I tagli, ha spiegato l’amministratore delegato Carol Tomé, rientrano negli sforzi della società di cambiare le modalità in cui opera e divenire più efficiente grazie all’intelligenza artificiale e altre nuove tecnologie.

La parificazione degli stipendi tra lavoratori che svolgono la stessa mansione, ma che vengono artificiosamente frammentati in sottocategorie, è stato anche uno dei risultati ottenuto dalla Uaw, organizzazione sindacale del settore automobilistico. “Penso che l’aspetto più convincente sia la richiesta di eliminare i livelli, vale a dire il tentativo di porre fine alla strategia del management di fare concessioni limitate ai lavoratori se questi consentiranno tagli sostanziali alle retribuzioni o ai benefici per chi verrà assunto domani o per i lavoratori con minore anzianità. Ho visto i miei colleghi, insegnanti, accettare questo terribile accordo più e più volte: è disgustoso. È letteralmente l’opposto della solidarietà”, aveva commentato a Ilfattoquotidiano.it il docente e attivista americano Joshua Clover.

Il sindacato guidato dal combattivo Shawn Fain, da settembre ha iniziato a paralizzare per mesi le catene di montaggio di Ford, Stellantis e General Motors, con scioperi a scacchiera a cui hanno partecipato 50mila lavoratori, nell’ambito di una mobilitazione strutturata in crescendo che alla fine ha raccolto anche l’appoggio della Casa Bianca. Gli aumenti salariali richiesti erano imponenti (+ 40%) eppure comprensibili se si considerano i profitti accumulati dai tre big americani dell’auto, l’incremento delle retribuzioni corrisposte ai top manager, l’erosione del potere d’acquisto causata dall’inflazione e il tempo da cui le buste paga dei lavoratori erano ferme. I sindacati sono infine riusciti ad ottenere incrementi di stipendio nell’ordine del 30% oltre alla riduzione dell’orario di lavoro. E il successo ha portato una pioggia di domande di nuove iscrizioni al sindacato, accrescendone ulteriormente il potere contrattuale. Solo nello stabilimento di Volkswagen nel Tennessee le richieste di adesione sono stare un migliaio in una sola settimana. La corsa alla sindacalizzazione coinvolge comunque un po’ tutti i settori.

Il testimone delle rivendicazioni è poi passato dai lavoratori dell’auto a quelli dell’industria del cinema, minacciati anche dal dilagare dell’Intelligenza artificiale. Ai 160mila attori che si sono fermati a partire da luglio si sono poi aggiunti 11mila sceneggiatori, paralizzando le produzioni hollywoodiane di serie tv e film. Attori, autori e sceneggiatori hanno ottenuto un incremento delle retribuzioni, oltre ad accordi che regolano introduzione e utilizzo dei sistemi di Intelligenza Artificiale.

Numericamente meno imponenti, ma simbolicamente importanti, sono stati i risultati ottenuti in gruppi tradizionalmente allergici alla dialettica sindacale come Amazon o Starbucks. La catena di caffetterie ha dovuto ingoiare più di un rospo. La Starbucks Worker United è riuscita a sindacalizzare 360 punti vendita in due anni. La reazione dell’azienda è stata scomposta, ha usato tecniche illegittime, arrivando a licenziare i lavoratori aderenti al sindacato e a bloccare la possibilità di corrispondere mance al personale con carte di credito nei negozi in cui era presente una rappresentanza dei lavoratori. La società ha subito diverse condanne in Tribunale ma persevera con la linea dura all’insegna dello slogan “litigate, litigate, delay, delay, delay”, ossia ritardare finché si può avviando quanti più contenziosi possibili (tecnica peraltro ben nota a molte compagnie assicurative che la utilizzano però con i loro clienti). Sul filo della legalità si muovono anche le politiche antisindacali e intimidatorie di Amazon che si rifiuta di avviare trattative. Tra i casi più eclatanti ci sono le discriminazioni nei confronti di 7mila lavoratori del sito di Staten Island dove nel 2022 è comunque sorto l’Amazon Union Labor. Il colosso dell’e-commerce sta inoltre cercando di “desertificare” il sito di Hadley, in Massachusetts, il primo a sindacalizzarsi. Ma le mobilitazioni aumentano e contro Amazon si sono schierati anche i corrieri impiegati in subappalto in California ed illegittimamente lasciati a casa dalla società, poi costretta a reintegrarli.

Il primo sciopero del 2023 era stato quello di 7mila infermieri di New York che chiedevano un aumento del personale per garantire costantemente livelli di assistenza adeguata ai pazienti, senza necessità di prolungare indefinitamente turni e straordinari. Battaglia vinta. Tra gli altri contenziosi coronati dal successo dei lavoratori Labor Notes ricorda quello degli operai metalmeccanici della Blue Bird Bus che dopo anni di lotta sono riusciti a dare vita ad una rappresentanza sindacale, o dei dipendenti della Kumho Tire che, oltre ad un aumento e migliori condizioni di lavoro hanno ottenuto la firma del primo contratto sindacale di un’ industria di pneumatici negli ultimo 40 anni. O ancora, lo sciopero di 75mila persone in 4 stati alle dipendenze del colosso sanitario privato Kaiser Permanente che si è concluso con un incremento delle paghe del 21%.

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