In alcuni articoli delle scorse settimane pubblicati sul magazine Usa Common Dreams (26 dicembre e 15 gennaio), l’economista Jeffrey Sachs, direttore del Centro per lo sviluppo sostenibile della Columbia University, si chiede come sia possibile che in maniera del tutto irrazionale gli Stati Uniti si ritrovino coinvolti in una guerra disastrosa dopo l’altra – Afghanistan, Iraq, Siria, Libia, Ucraina, Gaza e oggi Yemen – alimentate da massicce campagne di propaganda di guerra che spostano di volta in volta il “nemico”, come nel 1984 di George Orwell. Fallendo tutti i principali obiettivi di politica estera degli ultimi vent’anni, ma spendendo una quantità inaudita di risorse pubbliche in armamenti: 5.000 miliardi dollari in spese dirette, ossia 40.000 dollari per famiglia. E nel 2024 le spese militari continueranno a salire, aggiunge Sachs, ammontando a circa 1.500 miliardi di dollari: “Soldi buttati via, sperperati in guerre inutili, basi militari all’estero e un aumento di armi del tutto inutile che avvicina il mondo alla Terza Guerra Mondiale”.

Ciò accade, spiega Sachs, perché – indipendentemente dai presidenti che si susseguono – la politica estera statunitense “è gestita da un gruppo piccolo, riservato e affiatato, che comprende i vertici della Casa Bianca, la Cia, il Dipartimento di Stato, il Pentagono, i Comitati dei Servizi Armati della Camera e del Senato e le principali forze armate. Aziende tra cui Boeing, Lockheed Martin, General Dynamics, Northrop Grumman e Raytheon. Ci sono forse un migliaio di individui chiave coinvolti nella definizione delle politiche. I principali responsabili della politica estera gestiscono le operazioni di 800 basi militari statunitensi all’estero, centinaia di miliardi di dollari di contratti militari e le operazioni di guerra in cui viene dispiegato l’equipaggiamento. Più guerre, ovviamente, più affari”.

E’ quanto rileva anche Roberto Festa sul Fatto Quotidiano (L’industria bellica USA vola grazie ai conflitti, 31 gennaio 2024), in riferimento ai profitti della vendita di armi statunitensi nel 2023, pari alla cifra record di 238 miliardi di dollari, ossia al 40% del commercio globale: “anche il 90% degli oltre 100 miliardi di dollari stanziati dagli Usa per Kiev sono rimasti in casa: sono serviti a comprare sistemi militari da aziende che operano negli Stati Uniti”.

Questo gigantesco apparato bellico che si autoalimenta – e determina le scelte della Nato, orienta pesantemente quelle dell’Unione Europea e dei Paesi membri – è la versione contemporanea, aggiornata e potenziata mediaticamente del “complesso militare-industriale” già denunciato dal presidente Eisenhower, ex Comandante in capo delle forze Alleate in Europa contro il nazifascismo, nel celebre discorso di addio alla nazione del 1961, nel quale allertava il popolo statunitense sul pericolo per la democrazia della saldatura sempre più forte degli interessi dell’industria bellica con l’apparato militare: “Il potenziale per l’ascesa disastrosa di poteri che scavalcano la loro sede e le loro prerogative esiste ora e persisterà in futuro”.

Il disastro verso il quale stiamo andando incontro – alimentando l’escalation e l’allargamento dei conflitti armati in corso, dall’Ucraina al Medioriente, anziché l’impegno per la pace in tutti gli scenari – è stato raffigurato da Rob Bauer, presidente del Comitato militare della Nato, lo scorso 19 gennaio, annunciando che “i civili devono prepararsi per una guerra totale con la Russia nei prossimi 20 anni”. Preso in parola dal ministro della difesa Crosetto – che del complesso militare industriale è autorevole esponente nazionale – il quale ha annunciato a stretto giro il reclutamento di migliaia di civili riservisti, per “stare al passo coi tempi per affrontare con rapidità ed efficacia le emergenze e le crisi internazionali”. Ci muoviamo, dunque, a grandi passi verso “l’inevitabile guerra che ci aspetta”, come scrive Francesco Strazzari su il manifesto (4 febbraio 2024).

Difronte a questo scenario di guerra globale, anche nucleare, che si sta follemente preparando, tornano in mente le parole del filosofo Aldo Capitini che, stessi anni della denuncia di Eisenhower, ribadiva che il limite più grave delle democrazie è quello della preparazione della guerra con “la sostituzione totale dell’efficienza distruttiva al controllo dal basso”. E aggiungeva che i popoli si fidano troppo dei governi: “La guerra è voluta, preparata e fatta scoppiare da pochi, ma questi pochi hanno in mano le leve del comando. Se c’è chi preferisce lasciarli fare, e non pensarci, divertirsi e tirare a campare, noi dobbiamo pensare agli ignari, ai piccoli, agli innocenti, al destino della civiltà, dell’educazione e della progressiva liberazione di tutti. Noi dobbiamo dire NO alla guerra ed essere duri come pietre; oggi i governi, con la decisione di fare le guerre, sono infinitamente più dannosi di qualsiasi disordine della popolazione, perché un’ora di guerra atomica può distruggere la vita di tutto un popolo” (Il potere di tutti, 1969).

E’ necessario dunque, esortava Capitini, organizzarsi dal basso affinché questo non sia “inevitabile” – come non è avvenuto per impedire l’avvento dei poteri militaristi del fascismo e del nazismo – con la forza della nonviolenza, come mezzo e come fine. Un compito per il qui e l’ora.

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