Circa 300 milioni di euro di costo per 60mila posti a sedere. Sono i numeri dello stadio Olimpico Alassane Ouattara di Abidjan, l’impianto più capiente della Costa d’Avorio e tra i più moderni di tutto il continente africano. Sarà questo il teatro, domenica 11 febbraio, della finale della Coppa d’Africa 2024 tra i padroni di casa della Costa d’Avorio e la Nigeria. I primi alla caccia del terzo titolo dopo quelli del 1992 e 2015, i secondi invece del loro quarto dopo i successi nelle edizioni del 1980, 1994 e 2013. Una struttura imponente, polifunzionale – in grado anche di ospitare incontri di rugby, atletica leggera e manifestazioni extrasportive -, che ha ospitato anche la partita inaugurale, ma che senza il sostegno di un soggetto esterno dietro le quinte non sarebbe mai venuta alla luce. Una realtà che in Africa sta assumendo sempre più una dimensione tentacolare. È il governo di Pechino, che ha partecipato direttamente alla costruzione di tre dei sei impianti ivoriani.
Avviato nel 2016, il cantiere di Abidjan è stato infatti sotto la supervisione del Beijing Institute of Architectural Design e del Beijing Construction Engineering Group, e l’inaugurazione dei lavori è stata l’emblema della vicinanza e dei buoni rapporti tra Cina a Costa d’Avorio. Insieme al primo ministro ivoriano Daniel Kablan Duncan c’erano anche alcuni emissari di Xi Jinping. Oltre allo stadio della finale sono “cinesi” anche gli impianti delle città di San Pedro (Laurent Pokou Stadium) e Korhogo (l’Amadou Gon Coulibaly Stadium), rispettivamente dalla China Civil Engineering Construction Company e dalla China National Building Material. Fino a qualche anno fa sarebbe stato molto difficile immaginare la Coppa d’Africa di nuovo in Costa d’Avorio dopo il 1984. Quarant’anni fa gli stadi erano appena due.
Ma la Costa d’Avorio non è il solo paese africano ad avere rapporti stretti con Pechino. Tutto segue un percorso geo-politico preciso. La Cina infatti in Africa ha imposto la sua presenza in circa 40 nazioni del continente attraverso la cosiddetta “Stadium diplomacy”. Ovvero? Il finanziamento di infrastrutture sportive in cambio di materie prime. L’obiettivo di Pechino è quello di arrivare alle risorse di cui ha necessità per il proprio sviluppo economico. Gli investimenti sportivi si sono ingranditi sempre di più negli ultimi venti anni. Questa edizione ivoriana del torneo continentale infatti non è l’unica ad aver visto la presenza dell’ombra del governo cinese. Già nel 2008 il Ghana si era visto finanziare il rinnovamento di due stadi e la costruzione di altrettanti impianti. Nel 2010 l’Angola ha dato il proprio via libera per far venire alla luce tutte e quattro le strutture che hanno ospitato la competizione. Stessa cosa in Gabon, co-organizzatore dell’edizione 2012 insieme alla Guinea Equatoriale, e poi unico teatro di gioco di quella del 2017. Quattro stadi tutti opera di imprese di costruzione cinesi. Infine made in China sono stati quattro dei sei impianti camerunensi selezionati per ospitare la Coppa d’Africa 2021, tra i quali Yaoundè (60mila posti) e Douala (30mila).
L’Africa Occidentale è una regione in cui Xi Jinping cerca risorse naturali preziose per il fabbisogno nazionale, quali petrolio, minerali e metalli, ma anche prodotti agricoli, alimentari, tessili. Espandere la propria sfera di influenza creando continui sbocchi commerciali. Ed è per questo motivo che la Cina ha fatto in modo di realizzare un certo numero di opere. Gli stadi infatti non sono le uniche infrastrutture “cinesi” in Africa, ma ci sono anche molte strade, centri commerciali, centrali idroelettriche, linee della metropolitana. Gli aspetti critici della Stadium diplomacy vanno oltre questa sorta di “neo-colonialismo”. Uno di questi riguarda la sostenibilità, considerando l’enorme dispendio necessario per l’edificazione e la manutenzione degli impianti. Finito? Non proprio. Molti pongono l’accento anche sulla loro effettiva utilità, soprattutto in Paesi dove l’interesse per il campionato locale è limitato, così come sono limitati gli eventi di caratura internazionale. E poi c’è il tema dei lavoratori, delle loro condizioni e dell’impiego di manodopera locale, non sempre garantito. Un progetto di egemonia economica iniziato oltre 50 anni fa, nel 1971, con l’inaugurazione a Zanzibar (Tanzania) del primo impianto “cinese” in Africa, seguito poi da quelli in Somalia, Senegal e Mauritania. Un piano pronto ad allargarsi sempre di più in futuro, puntando anche le prossime edizioni della Coppa d’Africa.