“La Barbera era stato indottrinato, ha eseguito sempre le direttive che arrivano da Roma. Oggi è troppo facile processare i morti. All’epoca bisognava attribuire a soggetti lo status di mafioso, la strategia di La Barbera era quella, vestire il pupo, chiudere, fregandosene di tutto e tutti”. A riferirlo è l’ex poliziotto Gioacchino Genchi, oggi avvocato penalista, un tempo in ottimi rapporti proprio con Arnaldo La Barbera. Dichiarazioni rese in aula a Caltanissetta nel processo di appello sul depistaggio delle prime indagini sulla trage di via d’Amelio. Imputati sono i poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo. Gli ex componenti del gruppo d’indagine Falcone-Borsellino, all’epoca guidati proprio da La Barbera, sono accusati di calunnia aggravata per aver favorito Cosa nostra, perché avrebbero istruito Vincenzo Scarantino a rendere dichiarazioni che sarebbero servite a sviare le indagini sulla strage in cui fu ucciso Paolo Borsellino. In primo grado, caduta l’aggravante mafiosa, Bo e Mattei sono stati prescritti, mentre Ribaudo è stato assolto perché il fatto non costituisce reato.
“Vestire il pupo” – Genchi ha racconato di essere stato uno stretto collaboratore di La Barbera, proponendo spunti investigativi sulle stragi e manifestando le sue perplessità sulla pista poi seguita dall’ex capo della Mobile. “Non si volevano individuare i veri colpevoli e autori delle strage di Capaci e via d’Amelio, il possibile movente politico, che era stato colto anche da alcuni esponenti di Cosa nostra e non solo, quando faccio presente le mie perplessità e la mia ricostruzione sugli eventi, La Barbera non mi dice: abbiamo sbagliato tutto. No, lui mi dice: dobbiamo chiudere. Era stato istruito dal procuratore di Caltanissetta, sulla base della sentenza della Cassazione del Maxi processo, di attribuire a Cosa nostra tutte le responsabilità – ha spiegato Genchi -. Tutto quello che racconta Gaspare Mutolo, il suicidio del magistrato Domenico Signorino, il ruolo di Bruno Contrada e di altri apparati dei servizi, deve essere sottaciuto, perché si deve chiudere presto”. Poi quando viene arrestato Contrada, all’interno della polizia cambia qualcosa. “Da Roma partì l’input di commissariare la polizia di Palermo, le indagini le avrebbero fatte i carabinieri, e già sapevamo che arrestavano Riina. Mi raccontò che avevano paura di Contrada, perché avrebbe potuto parlare di una serie di vicende, come quella di Contorno (Salvatore, ndr). C’era una forma di complicità o un tentativo di aiutarlo”, ha aggiunto Genchi.
Il controverso rapporto – Il sostituto procuratore Maurizio Bonaccorso, applicato nel processo di appello, ha sollevato alcune “contraddizioni” nel rapporto dell’ex poliziotto con La Barbera, chiedendogli se il suo capo lo “informava costantemente sullo sviluppo delle indagini”. “Si, finché la nostra collaborazione è stata effettiva, a maggio ’93. Ricordo che ci fu un tentativo dei servizi, con Contrada, di inserirsi nelle indagini, chiedendo una delega, non sapevo che Tinebra era in rapporti con Contrada, anche perché noi all’epoca indagavamo su di lui, e credo che neppure La Barbera lo sapesse”, ha risposto Genchi. “Le parlò di Scarantino? Di Pipino (Vincenzo, ndr), che era un confidente di La Barbera e venne messo nella stessa cella del presunto pentito, per sondare la conoscenza dei fatti sulle stragi?”, ha chiesto ancora il pm. “No, di Pipino non mi disse nulla e neppure di Scarantino”, la risposta dell’ex poliziotto. “Le informazioni che raccolgo su Scarantino sono successive. Era un piscialetto, nessuno dei magistrati di Palermo lo conosceva, era un personaggio costruito dai nisseni. Questi elementi, tra il 4-5 maggio 1993, mi portano alla rottura del rapporto con La Barbera, che mi ha taciuto tante cose, e capisco che lui stava prendendo una deriva. Mi affidava tutto, si fidava sull’indirizzo delle indagini su Mutolo, Contrada, moventi sulle stragi, entità esterne americane, massimi sistemi, e poi non mi aggiorna e non ritiene di farmi parlare con questo Scarantino?”, dice Genchi.
L’agenda rossa – “Ritengo che La Barbera non c’entri nulla con l’agenda rossa. Lui quella cosa l’attribuiva ai carabinieri – dice Genchi -. Era fortemente rattristato, anzi era più che altro incazzato, per il fatto che venisse adombrata la possibilità che lui avesse estratto l’agenda rossa di Borsellino. Gli avevano riferito che la vedova aveva delle riserve sul suo conto per il fatto che lo ritenesse o, meglio, fosse stata convinta -e lui riteneva che lei fosse pilotata dai carabinieri– a convincersi che l’agenda rossa l’aveva sottratta lui”. Poi ha ricordato un particolare che ha definito significativo: “Una sera andammo a cena a Palermo e c’erano il pm Fausto Cardella, Arnaldo La Barbera e Ilda Boccassini, andammo da Peppino, in pizzeria. Eravamo seduti al tavolo quando entrò la signora Agnese, la figlia Lucia e altre persone. Siamo andati a salutarla, si sono baciate con la Boccassini, la signora Agnese però si rifiutò di salutare La Barbera. Di questa cosa se ne fece un cruccio, era mortificato”. Ha anche aggiunto che La Barbera “non ha mai usato parole eleganti nei confronti della signora Lucia Borsellino”.
I finti pentiti – L’ex poliziotto racconta che La Barbera aveva tentato di lasciare già nel gennaio 1991 la Squadra mobile di Palermo, perché “era una polveriera”, ma non riuscì a trovare un sostituto. “Mi disse che l’ultima cosa che avrebbe fatto prima di andare via era un giro in elicottero e fare una pisciata sulla questura di Palermo”, aggiunge Genchi. Parte delle domande, vertono sugli interrogatori a Salvatore Candura e Luciano Valenti, in cui era presente anche Genchi. “Accompagno Petralia prima a Roma e poi Milano, curo la verbalizzazione e lui stesso mi chiese di assistere, non ero imbucato. Percepisco subito dalle domande che si trattava di due soggetti che presentavano grossi problemi psichici, non ci stavano con la testa, e dalle risposte che davano percepivo che erano stati istruiti”, spiega Genchi.“La Barbera mi disse che questi erano stati fermati per vicende di reati sessuali. Rimasi perplesso, perché dalla ricostruzione di La Barbera, i due arrestati erano collegati alla strage in virtù del furto della macchina, che era riconducibile ad un parente dei due”, aggiunge l’ex poliziotto. La 126 usata nella strage di via d’Amelio infatti, era di Pietrina Valenti, sorella di Luciano. Genchi racconta di aver condiviso i suoi dubbi anche con il magistrato Carmelo Petralia durante il viaggio di rientro in Sicilia.
“La Barbera come reagì quando la vide agli interrogatori?”, domanda Bonaccorso. “Era sorpreso di vedermi li, e ho capito che non gradiva che partecipassi alla verbalizzazione. Chiese se era necessaria, e Petralia disse di si. Perché La Barbera era molto istintivo, penso che non abbia gradito perché magari ha capito che potevo rompere le uova nel paniere, visto che puntualizzavo su tutto e avevo un dialogo diretto e franco con il pm. Quindi interrompevo la sua libertà di manovra, di controllore ogni cosa, il ruolo di centralità della decisione”, aggiunge Genchi.