“Non ho l’età c’est moi”. Più che uno slogan, una definizione geniale quella che Gigliola Cinquetti dà della canzone icona che la lanciò nell’empireo della musica italiana. Era il 1° febbraio del 1964 quando vinse il Festival di Sanremo, lei appena sedicenne sul palco del teatro del Casinò in mezzo a futuri giganti come Milva, Modugno, Gaber e Tony Renis. Sessant’anni dopo torna a Sanremo, sabato 10 febbraio, per festeggiare un compleanno incredibile e sei decenni passati a surfare sul successo. Parola che analizza con distacco ironico e finissima acutezza. “Perché non mi piace la narrazione propagandistica che viene fatta oggi del successo, come se fosse un fine invece che un mezzo”, spiega a FQMagazine alla vigilia del ritorno al Festival, voluto da Amadeus. E intanto si gode l’onda lunga di un altro ritorno, quello sul set: la Cinquetti è infatti una delle protagoniste di L’età giusta, la commedia di Paramount+ diretta da Alessio Di Cosimo (interpretato da lei con Valeria Fabrizi, Giuliana Loiodice e Paola Pitagora), che racconta la vicenda di quattro ottantenni che non si arrendono al tempo che passa e hanno due giorni per far crescere un ragazzo che non vuole diventare adulto.
Gigliola, festeggia i 60 anni di Non ho l’età sul palco dell’Ariston. Che anniversario è?
Un anniversario leggerissimo, gioioso e fantastico. Adesso che è stata di tutti – perché le canzoni sono di tutti, non di chi le canta o di chi scrive -, dopo che per sessant’anni è stata qualcosa di distinto da me, torno a riappropriarmene.
Che metafora userebbe per descrivere quella canzone?
Una bolla di sapone, leggera e meravigliosa.
Ironicamente le chiedo: dopo sessant’anni non si è stufata di cantarla?
(ride) Ma scherza? Non ho l’età c’est moi. È inscindibile da me. Immodestamente mi considero annoverabile tra gli autori: è opera di Panzeri, Nisa e Colonnello, ma penso che il mio modo di interpretarla abbia avuto un impatto forte. Se l’avesse cantata qualcun altro magari avrebbe avuto un altro destino.
Come si fa a surfa ininterrottamente per sei decenni tra successo e popolarità?
La formula magica non esiste. Ho sempre saputo di non meritarmi il successo, però sapevo di essere un’artista autentica. L’essere in equilibro, la mia stabilità e la felicità non sono mai dipese dal successo.
A proposito del successo, lei una volta ha detto: “È stato un mezzo, non un fine”. Cosa intendeva?
Che il successo è l’inizio di qualcosa, lo strumento per approdare a qualcosa di altro, la scintilla che ti porta al realizzarti. Persino come realizzazione artistica è un elemento necessario – perché altrimenti nessuno ti ascolta, ti guarda o ti legge – ma non è comunque un fine. Il fine per un artista è poter creare e avere la possibilità di sperimentarsi in questa creatività.
C’è stato un momento in cui ha pensato: “Basta, mollo tutto”?
Continuamente, per anni. Traballavo, ma c’era di fondo una sfida che andava accettata, un’opportunità da prendere invece di scappare.
Il successo effimero innescato dai social che effetto le fa?
Non frequento molto i social ma l’ho sempre visto come un mondo fragile. E lo si vede quando gratti e scopri che appena sotto la superfice patinata e un po’ finta c’è un dissenso a tratti feroce.
Del caso Ferragni, di cui si parla molto in queste settimane, che idea si è fatta?
Non credo che alle persone interessi la mia opinione rispetto a una vicenda di cui so poco o niente. Ma è interessante ragionare proprio sulla narrazione quasi propagandistica che viene fatta del successo, come se fosse un fine invece che un mezzo. Il successo è quella fiammata di cui nessuno conosce la ragione: è lontano da ogni logica, è per sua natura immeritato ed esagerato. Se fosse meritato sarebbe proporzionato a qualcosa di ben fatto. Il successo è ingiusto, investe le sue vittime – perché chi ha successo è spesso inutilmente invidiato del pubblico – sia in senso positivo che negativo.
Lei ha definito il pubblico “l’altra faccia dell’artista”.
Il confine in certi momenti tende ad annullarsi, sfuma. E sono momenti magici. La vera felicità è poter far esistere un artista in quanto tale, fare della propria vita una forma d’arte.
Quando il telefono squilla di meno, come ci si corazza?
Si vive, si scopre il mondo, ci si emoziona, si sperimenta. Io ho avuto una grande fortuna perché il telefono ha squillato sempre e qualche volta sono stata io a decidere di non rispondere, ossia di non accettare proposte per progetti che sentivo lontani da me.
Però ha risposto subito sì quando le hanno proposto di recitare in L’età giusta, film originale di Paramount+ con Valeria Fabrizi, Giuliana Lojodice e Paola Pitagora.
Dopo un’intera vita a non avere l’età, mi divertiva avere una definita e trasformarmi in una donna adulta che sta in una casa di riposo. Cos’ho risposto appena ho letto il copione? Ho accettato subito la proposta.
Da quanti anni non recitava?
Da una vita. Erano decenni che nessuno mi chiedeva di fare film. Solo Pupi Avati mi ha fatto tornare sul set, ma quello è stato un cameo: mi ha vestita da suora e mi ha buttato sul set. Questa volta invece la proposta è stata più articolata. Mio figlio Costantino conosceva una persona della produzione, che ad un certo punto gli ha detto: “A tua mamma interesserebbe questa parte?”. Io ho detto di sì perché mi sono sentita istintivamente solidale con il desiderio di libertà che le persone anziane coltivano.
Libertà e leggerezza.
Dopo tanti bagagli pesanti trascinati per una vita, ad un certo punto hai la consapevolezza che devi assolutamente rispettarti e farti rispettare. Ed ecco il bisogno di piacere, di stare bene e anche di divertirsi. Il film mette in scena proprio questo desiderio di libertà e di complicità.
Ma il tono della commedia permette di declinare anche temi come la fragilità, gli anni che passano, la società che mette agli angoli gli anziani.
Le cattive intenzioni non sono nell’animo di nessuno, ma è un tema centrale per tutti visto che la popolazione italiana è sempre più anziana. E se la sanità è in crisi, saranno gli anziani a pagarne il prezzo più alto. Il sentimento generale è di grande preoccupazione. E io mi preoccupo anche del futuro dei nostri giovani.
Tornare sul set com’è stato?
Non sono una novellina, so come funziona il set ma adesso era tanto che non realizzavo un progetto così lungo e un film corale. È stato bello e divertente, sul set e anche fuori: viverlo bene, in armonia, ha prodotto un film che è un gioiellino di civiltà, di delicatezza e di ironia.
Con le sue colleghe che rapporto ha costruito?
Prima e dopo le riprese stavamo recluse in un resort molto bello, a Narni e poi a Todi. Lì ci sono stati momenti di libertà, grandi passeggiate… c’era un’atmosfera da collegio al femminile in cui si è creata una grande complicità.
Le conosceva già?
Pensi che Giuliana Lojodice presentò il Sanremo del ‘64 con Mike Bongiorno ma da allora non ci siamo più incontrate. Con Paola Pitagora ci siamo conosciute una vita fa durante un varietà con Johnny Dorelli… era una delle prime cose che facevamo entrambe. E con Valeria Fabrizi ci siamo incontrare diverse volte. In generale, ci siamo trovate molto bene.
Qual è la cosa che la gente le chiede più spesso quando la fermano per strada?
Più che le parole, mi colpisce l’intesa istantanea. In un paesino, una donna uscì di casa e mi lanciò quasi un bacio. Si risolve tutto con un sorriso, un lampo in uno sguardo.
A fine 2023 è uscito A volte si sogna, il suo romanzo autobiografico. C’è una cosa che i suoi figli hanno scoperto leggendo il libro che non sapevano di lei?
(ci pensa qualche istante) Non credo, o meglio, se c’è non me l’hanno detto. Ma, in fondo, i miei figli sanno tutto di me anche senza bisogno di troppe parole. In generale, invece, molti di quelli che hanno letto il libro si sono stupiti della mia personalità. “Altro che fredda”, mi hanno detto. Ma la presunta freddezza è stata in molti casi una forma di autodifesa. Le persone non si aspettano che io possa essere di donna di forti passioni e di forte curiosità.
È stato difficile raccontarsi senza filtri, con sincerità?
In qualche modo sì, perché essere sinceri vuol dire non essere banali. È faticoso mettersi in discussione ma non potrei essere diversa. Quando si tratta di comunicare con gli altri, mi sento responsabile e mi pare giusto dare una risposta vera, non premasticata.
Che rapporto ha col tempo che passa?
Complesso. Ma è un tema che mi è sempre interessato, non lo scopro adesso che ho più passato che futuro. Mi godo il presente, mi godo una grande libertà. E mi piace riflette sull’eterno ritorno di Nietzsche: ci sono dei momenti in cui mi ritrovo a pensare che sto vivendo quel momento eternamente, lo assaporo sapendo che – in fondo – non passerà mai.
Al ritocchino ha ceduto?
(ride) No.
Che cosa la spaventa di più?
La malattia. Per il resto poco o nulla. Da piccola avevo paura di sbagliare le mie scelte e di condizionare il mio futuro: quello ti frega, ti fa fare errori di valutazione. Adesso sono abbastanza leggera: ho un passato pesante, con una ricchezza enorme, e me ne servo.
La racconterebbe la sua vita in un reality?
No, per carità: detesto i confessionali, non sopporto quelli che parlano di sé in prima persona. Non me li propongono nemmeno talent e reality, né come giurata né come concorrente, perché sanno che tanto dico no.
Un altro film lo farebbe?
Quelli sì, soprattutto se è un progetto che mi piace. Non c’è età per smettere di sognare.