Come ogni edizione, da ormai diversi anni a questa parte Sanremo continua ad alternare rari momenti di bellezza vera, autentica, di arte con la A maiuscola (penso, per esempio, al miracoloso duetto sulle note di Hallelujah tra Skin e Alessandro dei Santi Francesi, alla travolgente versione di Sweet dreams con le voci di Annalisa e Veronica dei LRDL o ancora alla toccante interpretazione di Angelina Mango del brano paterno La rondine), a sketch a volte molto ben riusciti (garanzie Mannino e Fiorello, dove li metti è un successo) e a un sempre più alto numero di momenti musicalmente scadenti. Come la celebre rana bollita di Chomsky il pubblico, gradualmente e progressivamente, si abitua a qualsiasi cosa, ma da contribuente pagante un canone utile a distribuire paghe da capogiro due cose credo sia giusto metterle a fuoco.
La prima: il conduttore di turno, chiunque esso (o essa) sia, dovrebbe smetterla di tenersi anche la direzione artistica del Festival. Amadeus è bravissimo, professionale, per nulla affettato, naturale, e ha inoltre la dote, assai rara per un presentatore a quei livelli, di sapersi mettere di lato per lasciar spazio e valorizzare chi di turno calchi al suo fianco il palco dell’Ariston. È un uomo intelligente, lo ha saputo ampiamente dimostrare in questi ultimi anni, ma musicalmente non ha fatto altrettanto bene, sdoganando – sarà pur arrivato il momento di dirlo – personaggi (personaggi appunto, non artisti) di scarso o nullo valore musicale, mettendo sullo stesso palco, sullo stesso piano, all’interno della stessa competizione, gente (ogni anno sempre meno) capace di fare con la voce grandi cose (o quasi) e gente (ogni anno sempre più) che senza autotune (e altri effetti vari) dovrebbe cambiare mestiere.
Si dirà: avranno altre qualità. Compenseranno, che so, scrivendo testi degni di passare alla storia della canzone italiana e internazionale. A parte qualche significativa eccezione, qualche esempio di notevole bravura, non sembra affatto. Tolto dunque il look, tolte le acconciature, gli outfit, i tattoo, tolto cioè tutto ciò che fa immagine, immagine e ancora immagine, spiace constatarlo ma resta ben poco. È precisamente questo ciò che accade quando le direzioni artistiche vanno nelle mani di chi, per mestiere e costituzione, pensa principalmente a fare gli ascolti privilegiando il clamore rispetto alla qualità, la moda rispetto all’autenticità, il personaggio rispetto all’artista (due aspetti, due entità che a volte, ma solo a volte, possono anche coesistere, mentre se a esistere è solo il personaggio qualcosa non va).
Eppure nella storia del Festival, in tantissime edizioni, i direttori artistici separati dalla conduzione e con specifiche competenze di settore non sono mancati: parliamo di personaggi come Giulio Razzi, Gianni Ravera, Giorgio Moroder, Luis Bacalov, Mauro Pagani e diversi altri. A Sanremo, che da qualche decennio è diventato un gran varietà con numeri di ogni genere, oggi musicalmente parlando resta ben poco da dire, perché, tralasciando un attimo il piano vocale, anche su quello compositivo, produttivo, è sempre più raro trovarsi davanti a un brano con delle idee di una certa importanza, di una qualche qualità (penso a Diodato, che ha scritto un gran bel brano e che molto indicativamente è arrivato 13esimo) o di una qualche novità. Ciò detto, potremmo provocatoriamente rinominare Sanremo Festival dell’Autotune, così da fare finalmente un po’ di chiarezza e far capire a chi abbia qualcosa da dire, da cantare, da esprimere senza correttore vocale ed edulcorazioni varie che sarebbe forse arrivato il momento di migrare altrove e lasciare l’arena dell’Ariston a un tipo di competizione fortemente alterata dalla tecnologia.
Che per carità, ognuno è liberissimo di usare nelle proprie produzioni, nelle proprie canzoni, ma in una gara canora è un po’ come la guida assistita in quella automobilistica: e infatti in Formula 1 la guida assistita, a discrezione dei piloti, non c’è. Sia chiaro: non è una questione d’intonazione in sé per sé. Quante grandi voci ha avuto la musica senza che fossero perfettamente intonate. È, in una competizione prevalentemente canora, l’importanza di sentire la voce, il timbro vocale, e attraverso di essa conoscere l’artista, il cantante, l’essere umano. Il personaggismo, al Festival di Sanremo, ha progressivamente sacrificato la qualità, la musica, l’arte e gli artisti sull’altare dello share, degli ascolti, dei numeri: una mediasettizazione della Rai, in atto da decenni, che sul palco dell’Ariston vede manifestarsi, anno dopo anno, la sua creatura più riuscita e al tempo stesso mostruosa. Perché non sono gli ascolti, i numeri, a certificare la qualità: così stando le cose, McDonald’s avrebbe già 3 stelle Michelin.
Fare gli ascolti, avere il consenso, non significa per forza avere ragione: seguendo questa logica perversa faremmo un grave torto ai Giordano Bruno mentre al tempo stesso assolveremmo gli Hitler e i Mussolini. Gli ascolti, i numeri, non certificano altro che se stessi, e allora sarebbe forse il caso di riportare il tema della qualità tra le priorità, tirar fuori un po’ di coraggio e dirsi pronti eventualmente anche a sacrificare qualche bel punto percentuale: e chissà, magari poi scoprire che un’offerta di maggior qualità paga uguale.