Tanto di cappello a Ghali che, dal palco di Sanremo, ha chiesto “il cessate il fuoco” e la fine “del genocidio”. Proprio per questo è stato attaccato dall’ambasciatore israeliano in Italia. Così, con Maria Venier che gli teneva il microfono, ha replicato dal palco dell’Ariston che lui “dice stop alla guerra da anni”. Ma questo non è vero. E dispiace dirlo, vista la simpatia che chi scrive prova nei suoi confronti. Non risultano dichiarazioni di stampa riguardo ad altri conflitti, come quello siriano o in Yemen, fatte da Ghali. Come non risultano prese di posizione riguardo a questi due conflitti dalla sfilza di cantanti tramutatisi in pacifisti d’assalto allo sbaraglio.
E’ la prima volta che per un solo conflitto si sono visti e sentiti così tanti artisti esprimersi chiedendo un cessate il fuoco. Ed è incredibile notare come questo sia avvenuto a stretto giro: come se la consapevolezza e la sensibilità verso la gente che soffre, i palestinesi, si sia risvegliata all’improvviso, magicamente. Mi pare invece più semplice pensare che questa sia una moda acchiappa-follower: ne fa guadagnare tanti trasformarsi in pacifisti, specialmente se lo si è durante il festival della musica italiana. E’ comunque insolito constatare che questa “voglia di pace” – per citare Ghali – sia esplosa tutta adesso e non prima. Magari quando 500mila siriani venivano sterminati dalle bombe di un macellaio arabo. O mentre gli yemeniti venivano uccisi sotto i bombardamenti sauditi. E’ insolito che per loro non ci siano state canzoni e dimostrazioni così sincere di empatia.
L’unica speranza, quella che ci si sente di provare ora che il mondo musicale italiano è finalmente pronto ad essere più umano e a guardare nel giardino del vicino, è quella che alla prossima edizione ci sia la fila di artisti pronti a immolarsi per la pace nel mondo. Ma, ahimè, ci sono guerre e guerre. Ed è forse naturale che Ghali, come gli altri presenti al festival, si senta più vicino alla causa palestinese.
I motivi stanno nella sua biografia, nel posto che ha la Palestina nell’immaginario comune degli arabi e, specialmente, dei discendenti degli arabi. Insieme a questa causa, ovviamente, c’è una appartenenza religiosa che si trasforma in identità. Ma, spesso, il tutto viene svuotato di significato e complessità, diventando un simbolo vuoto. E questo svuotamento non può far sentire con lo stesso entusiasmo altre cause arabe gravi e impellenti (in parallelo avviene lo stesso anche per chi sostiene a spada tratta le ragioni di Israele).
Non è peccato fare i pacifisti, Ghali. Ma lo è quando lo si fa a fasi alterne.