Di questi tempi Antonio Gramsci e i primi redattori stavano definendo gli ultimi dettagli in alcune stanze nel cuore di Milano, in via Santa Maria alla Porta 2. È successo molto tempo fa: sono passati 100 anni. Il 12 febbraio del 1924 infatti uscì il primo numero del quotidiano l’Unità, sfidando apertamente il regime fascista, che era nato pochi mesi prima, il 31 ottobre 1922 (con la nomina di Benito Mussolini come capo del Governo, grazie al sostegno del re Vittorio Emanuele III). Ironia, amara…, della sorte, l’anniversario del centenario dalla fondazione del giornale voluto dal Partito comunista d’Italia cade in anni in cui al governo del Paese c’è Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia (FdI), diventata premier nel centenario della marcia mussoliniana su Roma (28 ottobre 1922) ed erede di un altro partito post-fascista, il Movimento sociale italiano (Msi), nato nel Dopoguerra, a sua volta figlio del Partito nazionale fascista (Pnf) e della Repubblica sociale italiana (Rsi).

Ricordare la storia de l’Unità per me ha un doppio significato: è un pilastro, con tutte le sue umanissime contraddizioni, della storia italiana; è anche un pilastro della mia vita, perché lì ho iniziato a fare il giornalista e vi ho lavorato per quasi 18 anni, dal 1982 al 1998. L’Unità vera (non il clone farlocco in circolazione da un annetto) ha chiuso definitivamente nel 2017, in conseguenza delle scelte sciagurate di Matteo Renzi (quando era – ahimè – segretario del Pd). Nel corso di un secolo di storia, il quotidiano aveva cambiato pelle varie volte, perché molto era cambiato nel Pci e nei partiti che ha generato dopo il 1991, così come molto era cambiato nella politica e nella società italiana. Ha visto le firme di centinaia di giornalisti e intellettuali che rispecchiano quei cambiamenti (incluso, tra gli altri, Marco Travaglio, oggi direttore del Fatto Quotidiano, che ne è stato editorialista dal 2002 al 2009).

Però ora torniamo a l’Unità marxista-leninista nata 100 anni fa. Fu concepita per costruire, parola del fondatore Antonio Gramsci, “il fronte unico degli operai e dei contadini” contro il fascismo. Ne ho scritto l’anno scorso su FqMillennium. Oggi in via Santa Maria della Porta nessuna lapide ricorda (forse sarebbe il caso di rimediare quest’anno) che da lì uscì il primo numero del Quotidiano degli operai e dei contadini, come si leggeva in origine sotto la testata. La dittatura stava già mostrando muscoli e manganelli, eppure resistette agli squadristi per due anni. L’8 novembre 1926 il regime fascista, dopo 146 sequestri, fece chiudere il quotidiano, che dal 1927 iniziò a essere pubblicato clandestinamente. Solo 18 anni dopo, il 2 gennaio 1945, uscì dalla clandestinità, a Roma.

Nell’Italia repubblicana, L’Unità restò a lungo un giornale di massa, forte di un’edizione nazionale e molte locali. Negli anni Sessanta vendeva 280.000 copie al giorno, ed era il terzo quotidiano, dopo Corriere della Sera e La Stampa, con 100 milioni di copie l’anno. Nel 1974 le copie giornaliere erano ancora circa 240.000; si arrivava a 1 milione e mezzo il 1° maggio e a mezzo milione di domenica, quando migliaia di iscritti andavano a diffondere l’Unità casa per casa. Dunque, finché c’è stato il Pci, sciolto nel 1991, è stata la voce del partito e anche una fonte completa e indipendente (dal partito) di notizie (sport incluso). Era arrivata ad avere più di 200 giornalisti. Il terzo posto dell’Unità tra i quotidiani venne meno intorno al 1980. Con l’avvio del primo governo Prodi (1996-1998), di centrosinistra, l’Unità si arenò, per poi arretrare sempre più. Sembra un paradosso, ma un quotidiano nato per fare opposizione non sembrava adatto a convivere “dentro” una coalizione di governo. Alla fine degli anni Novanta iniziarono a essere coinvolti vari soci privati. Però L’Unità chiuse nel 2000 per riaprire nel 2001, richiudere nel 2014, tornare nel 2015 e sparire il 3 giugno 2017. Il Pd di Matteo Renzi l’aveva ceduta al gruppo Pessina Costruzioni, che ne decise anche la chiusura.

Un patrimonio scomparso (nel senso ideale e archivistico del termine)? Sul fronte ideale siamo (o perlomeno lo sono io) in attesa che in Italia si consolidi – dopo il disastro del renzismo – una nuova sinistra liberale e democratica, cui l’evoluzione del Pci ha cercato di dare (tra qualche tentennamento) un forte contributo. Sul fronte della memoria e della storia (quindi della tutela del suo patrimonio di carte e documenti) per fortuna c’è una buona notizia: il ricco archivio romano da qualche mese è in salvo e il 12 febbraio partirà il suo progetto di valorizzazione, con una conferenza in programma alle 15 in via Senato 10, nella sede milanese dell’Archivio di Stato. Il salvataggio è avvenuto grazie all’impegno di funzionari dello Stato motivati e capaci; e anche grazie alla resistenza di coloro che nel quotidiano fondato hanno lavorato fino al 2017. ​​

Dopo la chiusura, dell’archivio erano state perse le tracce; poi è rispuntato in buone condizioni (grazie alle cure dell’azienda che lo ha custodito, la SGA srl) nel Milanese, a Lentate sul Seveso, dato che nel 2019 vi era stato illecitamente trasferito da Nepi (Viterbo). Tutto il materiale da alcune settimane è in deposito coattivo nell’Archivio di Stato di Milano, grazie all’azione di tutela della Soprintendenza Archivistica e Bibliografica della Lombardia. Un’operazione svolta in collaborazione con il curatore fallimentare, Simone Manfredi, intervenuto dopo il fallimento della società che possedeva il giornale. “Un archivio assicurato alla permanenza e al futuro è una buona notizia per la comunità: garantisce la possibilità di usufruire dei diritti culturali. Quando l’archivio appartiene a una testata storica come l’Unità e consente la restituzione della conoscenza di un secolo di storia italiana, si celebrano anche democrazia e pluralismo”. L’ha detto Annalisa Rossi, soprintendente agli archivi e alle biblioteche della Lombardia e direttrice dell’Archivio di Stato, che ha presentato il progetto di valorizzazione. Una seconda vita: se non del quotidiano, almeno della sua grande storia.

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