Ventuno miliardi di euro. A tanto ammonta il bottino raccolto dalle prime cinque banche italiane nel 2023. A fare la parte del leone sono naturalmente le due big, Intesa Sanpaolo ed Unicredit, che hanno chiuso l’anno con profitti rispettivamente per 7,7 ed 8,6 miliardi di euro. Seguono banca Mps (2 miliardi), Bper (1,5 miliardi) e Banco Bpm (1,2 miliardi). Per tutti si tratta di risultati in forte miglioramento rispetto ad un già generoso 2022 e spicca il +85% nei guadagni di Banco Bpm. A livello di intero sistema bancario italiano, 40 miliardi dovevano essere secondo le stime e 40 miliardi saranno, forse anche qualcosa in più. Per manager ed azionisti è una cuccagna. La gran parte di questo denaro finirà in dividendi e programmi di buy back (il riacquisto delle proprie azioni che ne spinge verso l’alto il valore e migliora l’utile per azione, parametro a cui spesso sono ancorati i bonus dei manager). Chi invece non partecipa alla festa è lo Stato italiano, ovvero tutti noi. La tassa sugli extraprofitti bancari, presentata a sorpresa lo scorso luglio, è stata via via depotenziata sino ad annichilirsi. In pratica alle banche viene concessa la scelta se versare la tassa all’erario o destinare i soldi al rafforzamento del proprio capitale, ossia versarli a se stesse. Non era difficile prevedere come sarebbe andata a finire: zero incassi per lo stato, a fronte dei 4 miliardi preventivati con la prima versione.

Secondo la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, questa soluzione minimale avrebbe almeno avuto l’effetto di favorire l’erogazione di credito a famiglie e imprese. I bilanci diffusi in questi giorni fotografano però una tendenza opposta. L’ammontare complessivo dei prestiti in essere delle prime 5 banche italiane è oggi 50 miliardi di euro più basso di un anno fa. Venerdì la Banca d’Italia ha rilevato come a dicembre 2023 i prestiti al settore privato sono diminuiti del 2,8% sui dodici mesi. I prestiti alle famiglie si sono ridotti dell’1,3% sui dodici mesi mentre quelli alle società non finanziarie si sono ridotti del 3,7%. Che i prestiti calino è normale visto che, nello scenario di un’economia stagnante e con il costo per farsi prestare soldi salito significativamente, sono sempre meno le aziende e le persone che si avventurano a chiedere denaro.

Quindi, a cosa si deve il boom dei guadagni delle banche? È semplice: si fanno meno prestiti ma quelli che si fanno costano di più a chi li contrae. Inoltre se da un lato le banche hanno largamente beneficiato degli incrementi dei tassi decisi dalla Banca centrale europea, dall’altro, come rimproverato dalla stessa Bce, sono incredibilmente lente nel trasferire i benefici anche ai loro depositanti. Per la stessa logica, anche loro dovrebbero ricevere qualche cosa in più sui loro depositi (che di fatto sono soldi prestati alla banca). Come si vede dunque, i meriti di banche e banchieri per questi risultati sono relativi. Anzi, le altre voci di bilancio che non dipendono dall’andamento dei tassi, come commissioni e trading di attività finanziarie registrano per lo più segni negativi. E i costi sono sostanzialmente stabili.

È anche questa la ragione che sta alla base dell’idea di una tassa sugli extraprofitti (ossia quei profitti originati da cause straordinarie ed esterne al normale operare della banca). Tassa che opinionisti e giornali italiani (a volte partecipati da banche) non hanno perso tempo ad impallinare con le scuse più inverosimili. Poi è bastato un sopracciglio inarcato di Marina Berlusconi, “azionista” sia di banca Mediolanum sia del governo tramite il partito di famiglia Forza Italia, per ricondurre Giorgia Meloni a più miti consigli. Eppure, quanto avrebbe fatto comodo quella manciata di miliardi mentre si fatica a far quadrare i contie si pensa di vendere l’argenteria per fare cassa.

In Spagna è andata diversamente, lì una tassa molto simile è stata applicata e ora si valuta se renderla permanente. Dai 5 big del paese il governo incasserà circa un miliardo di euro. Ricadute per le banche? Di certo non tragiche visto che, anche in terra iberica, i primi 5 gruppi hanno chiuso la migliore annata di sempre con profitti di oltre 26 miliardi di euro. Ne si ha notizia di un attacco dei mercati ai titoli di Madrid, eventualità prospettata da alcuni scandalizzati commentatori qualora l’Italia avesse introdotto il tributo. Il ministero dell’Economia si consolerà con i 121 milioni di euro che arriveranno in forma di dividendo di Mps di cui continua a possedere il 39%, e dopo aver cacciato nella banca senese 8 miliardi di euro dal 2018 ad oggi per tenerla a galla.

Le previsioni per i prossimi esercizi segnano il bello stabile. Tutte le grandi banche si attendono ricavi più o meno stabili nel 2024 e nel 2025, utili ancora corposi e tanti soldini per i loro azionisti. Dunque tanto ottimismo, nonostante un’economia non certo pimpante (seppur, stando alle previsioni Fmi in lieve miglioramento) e nonostante si dia quasi per scontata una diminuzione dei tassi di interesse della Bce (e della Federal Reserve americana) già nel corso di quest’anno. Come abbiamo visto, un costo del denaro minore comporterebbe una contrazione del margine di interesse da cui le banche incassano mediamente il 60% dei loro ricavi. Il fatto che gli istituti di credito non temano più di tanto questo scenario ci dice anche come non si attendano quel filotto di sei tagli consecutivi su cui scommettono gli investitori più “esagitati”. Bce e Fed non sanno più in che lingua spiegare che questo scenario è, al momento, parecchio improbabile. Ma i favolosi modelli econometrici che una decina di anni fa ci hanno razionalmente condotti nella più grave crisi finanziaria della storia recente, insistono nel dire il contrario.

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